Rooker era stato trasferito nel carcere di Salisbury, uno dei pochi con una sezione per testimoni protetti. Ne era stato felice. C'erano solo altri cinque o sei detenuti, e neppure un pennello in vista.

«Come ti contattò Billy Ryan?» chiese Thorne. «Come venne fuori l'idea di uccidere Alison Kelly?»

La sala colloqui era stata ridipinta di giallo, ma chiunque l'avesse progettata non si era sforzato molto con l'arredamento. Un tavolo, un registratore, un posacenere...

Rooker si schiarì la voce. «Avevo già incontrato Ryan in passato...»

«Quando ti aveva chiesto di eliminare Kevin Kelly?»

«Non ho intenzione di parlare di questo.»

«Tuttavia Ryan ti aveva contattato per quello, dico bene?»

«Credevo che avessimo già definito questo punto.»

«È incredibile che sia tornato da te, dopo che tu avevi fallito l'obiettivo...»

Rooker incrociò le braccia sul petto, con un'aria da bambino imbronciato.

«Ascolta, Gordon» disse Thorne. «Questo verrà fuori in tribunale. L'avvocato di Ryan farà di tutto per screditare la tua testimonianza. Tu non sei esattamente un cittadino modello, capisci?»

Rooker tirò fuori la tabacchiera, l'aprì e cominciò a rollare una sigaretta. Sembrava un uomo diverso da quello che Thorne aveva incontrato un mese prima. Era chiaro che non si era ancora ripreso dalla pugnalata, ma non era solo quello. L'atteggiamento provocatorio che aveva avuto all'inizio era un tipico trucco da galera. In prigione contava quello che gli altri pensavano di te, e la finzione poteva essere utile proprio come una carta telefonica o un pennello appuntito.

«Il punto è che ero l'uomo giusto per quel lavoro» disse Rooker. «Si era sparsa la voce che fossi stato io quello che aveva cercato di far fuori Kevin Kelly, l'anno prima.»

«Ed era solo una voce...»

«Era quello che la gente pensava. Quindi fui la prima persona a cui pensò Billy Ryan quando decise di eliminare la figlia di Kelly.»

«Era una copertura perfetta.»

«Esatto.»

Rooker accese la sigaretta. Il fumo che saliva verso l'alto ricordò a Thorne quello che aveva detto a Memet Zarif la settimana prima. E provò la stessa invidia che provava sempre verso chiunque si godesse una bella fumata. A volte sognava ancora di aspirare una boccata e di sentire il piacere della nicotina nei polmoni...

«Come fece Ryan a contattarti? Non poteva rischiare di farsi vedere con te, giusto?»

«Infatti. L'incontro fu organizzato da una terza persona, un certo Harry Litde, che adesso è morto.»

«In circostanze sospette?»

«Che io sappia no. All'epoca aveva quasi una sessantina di anni.»

«Va' avanti.»

«Ci incontrammo in un pub di Camden Town. Forse il Dublin Castle, non ne sono sicuro. Harry era molto gentile, e mi sembrò strano, visto che non eravamo mai stati molto amici. Capii che voleva qualcosa, e che doveva trattarsi di un lavoro importante, perché Harry aveva una certa reputazione. Mi parlò di Billy Ryan, prendendola alla lontana, e solo dopo la terza o quarta birra mi disse che Ryan voleva vedermi, e che lui mi avrebbe fatto sapere il quando e il dove. Compresi che doveva trattarsi di un lavoro speciale.»

Rooker vide l'effetto delle sue parole sulla faccia di Thorne e si corresse in fretta. «Speciale nel senso di "diverso dal solito", intendevo.»

Thorne annuì. Il "solito" era piantare un proiettile nella nuca di qualcuno, gettarlo da una finestra, picchiarlo a morte...

«Dove ebbe luogo l'incontro?»

Rooker schiacciò la sigaretta nel portacenere e spinse indietro la sedia. «Possiamo fare una pausa? Devo andare in bagno.»

Quando Rooker fu uscito, Thorne si alzò in piedi per sgranchirsi le gambe. Camminò fino alla parete e vi si appoggiò contro. Una quantità di volti si muovevano nella sua mente: Billy Ryan, Memet Zarif, Marcus Moloney, Ian Clarke, Carol Chamberlain. C'erano anche i volti di Muslum e Hanya Izzigil, del loro figlio Yusuf, le due facce di Jessica Clarke...

Un agente di custodia aprì la porta e fece entrare Rooker. Tornarono a sedersi al tavolo.

«Lei ha figli, signor Thorne?»

«No.»

Rooker scrollò le spalle, come se in tal caso quello che aveva pensato di dirgli non avesse più importanza.

Thorne era curioso, ma gli interessava di più andare avanti con il caso. Schiacciò il bottone rosso del registratore assicurato alla parete. «Il colloquio riprende alle... undici e quarantacinque del mattino.» Guardò Rooker, che aveva di nuovo aperto la tabacchiera. «Dimmi cosa accadde quando incontrasti Billy Ryan.»

«Fu lungo una strada sterrata, nella foresta di Epping, vicino Loughton. Una sera Harry Little mi chiamò e mi disse dove andare. Io salii in macchina e guidai fin lì.»

«Eravate soli, tu e Ryan?»

Rooker annuì. «Sì. Salii sulla sua macchina e lui mi disse cosa voleva.»

«Ti disse di uccidere la figlia di Kevin Kelly, Alison.»

Rooker fissò Thorne negli occhi. Era arrivato il momento di fare le affermazioni importanti. «Esatto.»

«E tu cosa pensasti?»

Rooker fece una faccia confusa, senza rispondere.

«Come hai detto prima, era un lavoro diverso dal solito, no?»

«Tutti sapevano che Ryan era un po' pazzo...»

«Ma anche così, uccidere una ragazzina...»

«Lui voleva una guerra. Voleva qualcosa che avrebbe fatto reagire la banda con tutta la violenza possibile.»

Thorne pensò a Billy Ryan che gli diceva, con appena un tremito sulle labbra: La conversazione è finita.

«E l'idea di darle fuoco fu di Ryan o tua?»

«Sua.» Rooker si passò una mano tra i capelli, facendo cadere della forfora sul tavolo. «Pensava che, siccome si trattava di una cosa che io avevo già fatto, mi sarei sentito più a mio agio...»

«A tuo agio?»

«Gliel'ho detto, è pazzo.»

«Tuttavia era qualcosa per cui tu eri noto. Quando lui menzionò proprio quel metodo, non squillò nessun campanello d'allarme nella tua testa?»

Rocker sorrise. «Un allarme antincendio, intende dire?»

Thorne restò impassibile. «Guardami, Gordon. Mi sto pisciando addosso dal ridere.»

«Mi scusi.»

«Insomma, non ti venne nessun sospetto?»

Rooker aspirò una lunga boccata e trattenne il fumo nei polmoni.

«Avanti, era ovvio che tutti avrebbero pensato a te. Vuoi farmi credere che eri così occupato a pensare che Ryan era pazzo da non sospettare neppure per un secondo che stesse cercando di incastrarti?»

Rooker esalò il fumo con un sospiro. «Ci pensai solo dopo. Capii di essere stato uno stupido, ma ormai era tardi. Ero fregato, e Ryan aveva un pretesto perfetto per farmi uccidere. Ormai avevo capito che per lui era importante chiudermi la bocca.»

«E quando ti propose il lavoro cosa pensasti?»

«Pensai: "Non se ne parla".»

«Perché era troppo rischioso?»

«Perché si trattava di una bambina, Cristo!»

Thorne si chinò verso il registratore. «Il signor Rooker ha battuto una mano sul tavolo per dare enfasi alla sua risposta.» Sorrise a Rooker. «Altrimenti potrebbero pensare che quel rumore l'abbia fatto io colpendoti con una sedia, o qualcosa del genere.»

Rooker non disse nulla.

«E cosa accadde quando rifiutasti la proposta di Ryan?»

«Lui non ne fu affatto contento.»

«Cosa disse?»

«Disse che si sarebbe rivolto a qualcun altro. Ricordo esattamente le sue parole, mentre scendevo dalla sua macchina: "C'è sempre qualcun altro...".»

Thorne riusciva perfettamente a immaginarsi Ryan mentre pronunciava quelle parole. Sentì un nodo allo stomaco. L'esperienza gli aveva insegnato che era vero. C'era sempre qualcuno disposto a fare quello che un altro aveva rifiutato.

Thorne annunciò al microfono che il colloquio era sospeso, poi schiacciò di nuovo il bottone rosso.

«Continueremo dopo pranzo» disse a Rooker.

 

Thorne lasciò la M4 appena prima di Newbury, per infilarsi nel parcheggio della Chieveley Services. Un'auto lampeggiò e Thorne andò a occupare il posto accanto.

Scese e raggiunse Holland, che era sceso a sua volta da una Rover senza insegne.

Thorne aveva ricevuto la chiamata mentre tornava da Salisbury. Aveva mangiato un sandwich per strada e aveva invertito la marcia.

Holland gli offrì una torcia elettrica, ma Thorne preferì prendere la Maglite che teneva nel bagagliaio. Si infilò anche i guanti. Preceduti ciascuno dal suo fascio di luce, si avviarono verso il lato opposto del parcheggio.

«Come mai l'abbiamo saputo così in fretta?» chiese Thorne.

«Rapida e armoniosa collaborazione tra noi e i ragazzi di Thames Valley.» Holland sorrise vedendo la faccia incredula di Thorne. «So che è difficile da credere. Hanno trovato il camion questa mattina. Mentre cercavano di rintracciare la targa, è venuto fuori un nome. Un segnale sul loro computer li ha avvisati che si trattava di un nome a cui noi eravamo molto interessati, inoltre Bob è suo zio, signore...»

«E quindi semplicemente ci hanno chiamati?»

«Stupefacente, vero? Le varie forze di polizia che lavorano così bene insieme. Qualcuno dovrebbe contattare Mulder e Scully...»

Il grosso camion con rimorchio era immerso nel buio. Le luci del centro commerciale con ristorante fast-food annesso a cinquecento metri di distanza permettevano appena di distinguere i due piantoni di Thames Valley.

Avvicinandosi, Thorne e Holland illuminarono le bande catarifrangenti sulle loro uniformi, e il nastro blu che delimitava la scena del delitto.

La motrice era Mercedes. Il container di circa nove metri era verde scuro, senza nomi o marchi di nessun tipo.

Thorne andò dalla parte del passeggero e afferrò delicatamente una maniglia.

«Credo che i ragazzi di Thames Valley abbiano già esaminato tutto» disse Holland.

Thorne aprì la portiera. «Spero che siano stati molto attenti. Avremo bisogno della scientifica, qui.»

«Stanno arrivando.»

Thorne illuminò l'interno del camion con la torcia. C'erano delle carte sparse a terra e sui sedili. Non si capiva se la confusione era dovuta agli agenti che avevano perquisito il camion o a coloro che l'avevano sequestrato e poi abbandonato lì.

«Cosa trasportava?» chiese Thorne, saltando giù.

«Dai documenti che hanno trovato in cabina sembra che si trattasse di lettori DVD. Un bottino di buon livello.»

«Suppongo che siano già in mano a Billy Ryan. Deve aver deciso di colpire gli Zarif in un punto sensibile. E l'autista dov'è?»

«Scomparso. Non ne hanno trovato traccia da nessuna parte.»

«Cosa ne pensi?»

«Ogni idea è buona. Forse i rapinatori se lo sono portato dietro...»

Thorne si inginocchiò e illuminò con la torcia sotto il camion. Macchie d'olio, sporcizia e nient'altro. «Oppure l'hanno picchiato a sangue e hanno lasciato che tornasse dai fratelli Zarif. In un modo o nell'altro, se la vedrà brutta.»

Due adolescenti che avevano notato le luci arrivarono dal fast-food portandosi dietro hamburger e bibite. Thorne li illuminò con la torcia, e loro si coprirono gli occhi.

«Dave, per favore, va' a dirgli di togliersi dalle palle.»

Holland si diresse verso i due ragazzi, e Thorne pensò che, per una volta, il vecchio cliché "non c'è niente da vedere" era assolutamente esatto. Le porte posteriori del camion erano accostate, ma non chiuse. Thorne provò ad aprirne una con una mano sola. Non ci riuscì. Posò la torcia per terra e tirò con entrambe le mani.

Il puzzo di orina lo prese alla gola. Si chinò a raccogliere la torcia e fece un salto indietro quando Holland spuntò all'improvviso da dietro la fiancata.

«Merda.»

«Mi scusi» disse Holland, ridendo. Puntò anche la sua torcia all'interno del camion. «Un bel profumino, eh? Deve averci passato la notte qualche vagabondo.»

«Dammi una mano» disse Thorne.

Holland gli fece scaletta con le mani intrecciate, e Thorne riuscì a salire nel container. Dentro, l'odore era insopportabile.

«Cristo...»

«Forse qualcuno lo ha scambiato per un nuovo tipo di bagno chimico» disse Holland.

Thorne illuminò il pavimento di metallo. La luce fece brillare le chiazze e le pozzanghere di orina.

Decise che aveva visto abbastanza e stava già per saltare giù quando il fascio di luce illuminò qualcosa di insolito. C'erano dei segni in alto, dalla parte verso la motrice. Thorne si avvicinò.

«C'è già stato qualcuno, qui dentro?» gridò. Ma conosceva già la risposta. Di giorno, nessuno avrebbe mancato di vedere quei segni.

«Non credo» disse infatti Holland. «Secondo me hanno aperto le porte, hanno visto che era vuoto e le hanno richiuse.»

I graffi erano recenti, e avevano un colore molto più brillante del resto della parete di metallo.

Da fuori, Holland puntò la sua torcia su Thorne. «Che cosa c'è?»

Era una scritta. Una sola parola. Incisa sul metallo con un coltello, o forse con un chiodo.

UMIT.

«Non si tratta di vagabondi che hanno passato qui la notte» disse Thorne. «E questo camion non trasportava lettori DVD. Trasportava persone.»

«Cosa? Immigranti illegali?»

«Potrebbe anche trattarsi di importazione clandestina di prostitute, ma ne dubito. Sono convinto che qui dentro ci fossero persone consenzienti. Che hanno pagato gli Zarif con i loro risparmi di tutta una vita.»

Holland disse qualcos'altro, ma Thorne non riuscì a sentirlo. Si voltò lentamente, illuminando le altre pareti, e ricordando la donna nella metropolitana, con il bambino in braccio e la tazza vuota dove nessuno lasciava cadere una moneta.

Ricordò anche le parole di Arkan Zarif.

Pane e lavoro...

 

Era già passata mezzanotte quando Thorne parcheggiò dietro una Golf blu in Ryland Road. Si sentiva esausto. Scese e si avviò verso casa, ma passando accanto alla Golf vide che c'era un uomo addormentato al volante. Si chinò a guardare meglio, alla luce di un lampione non troppo vicino.

L'uomo aprì gli occhi per un attimo, sorrise e tornò a dormire.

Thorne continuò a camminare verso il portone, tastandosi le tasche in cerca delle chiavi. Forse aveva scosso Billy Ryan più di quanto immaginasse.

Hendricks aveva già preparato il divano letto per la notte, ma stava ancora leggendo. Thorne gli raccontò gli eventi della giornata.

Hendricks non aveva avuto più a che fare con quel caso dall'autopsia di Marcus Moloney, ma era importante che fosse al corrente del lavoro svolto dalla squadra. Anche perché Thorne era convinto che la sua opera sarebbe presto stata richiesta di nuovo.

«C'è un messaggio per te sulla segreteria» gridò Hendricks mentre Thorne era in cucina. «Sembra interessante.»

Thorne si avvicinò al telefono, portandosi dietro la tazza di tè, schiacciò il bottone, e si sedette su un bracciolo del divano letto ad ascoltare. Il messaggio era di Alison Kelly. Gli chiedeva se era libero la sera seguente, e gli lasciava il suo numero per farsi richiamare.

Hendricks mise giù il libro che stava leggendo. «Si tratta di chi penso io?»

Thorne spense la luce principale del soggiorno e si avviò verso la stanza da letto. «È difficile saperlo» disse. «Non so a chi pensavi tu...»

Poche ore dopo, Thorne attraversò di nuovo il soggiorno, a piedi scalzi. Si avvicinò alla finestra, ma sbatté contro il divano letto e imprecò.

Hendricks si svegliò di colpo, e si alzò a sedere. «Sono le quattro del mattino...»

«Lo so.»

Parlavano sottovoce, anche se ormai non c'era più nessuno da disturbare, solo perché era buio.

«Cosa stai facendo?» gemette Hendricks.

Thorne era irritato, e il dolore al piede non aveva migliorato il suo umore. «Sto pensando che questa casa è un po' troppo affollata, ultimamente» rispose, avvicinandosi alla finestra. «Quanto ci vuole per togliere un po' di umidità?»

Hendricks non disse nulla.

Thorne tirò su la tapparella e guardò in strada. La Golf non c'era più.

 

18 maggio 1986

Ali e io siamo andate in città, oggi. Ali si è comprata una borsa e un paio di top nuovi, io ho preso dei dischi. Poi abbiamo mangiato un hamburger sedute su una panchina fuori dalla biblioteca. Un paio di tizi ci fissavano. Io ho scherzato con Ali, chiedendole secondo lei a quale di noi due facevano il filo. Era il tipo di cosa che le avrei detto prima. Lei ha fatto una faccia strana e ha buttato via l'hamburger. So che avrei dovuto lasciar perdere, ma volevo solo farla ridere un po'. Ho detto che era vero quello che si dice, che le belle ragazze si accompagnano sempre a un'amica brutta, e lei si è messa a piangere.

Ora mi dispiace averla fatta star male, ma provo anche rabbia, perché il suo dispiacere, il suo senso di colpa, sembra così futile quando mi guardo allo specchio, nella mia stanza, e metà della mia faccia sembra la carne dell'hamburger di Ali.

So che domani sarà tutto passato e lunedì Ali e io saremo di nuovo amiche come sempre, ma ora che scrivo sono proprio depressa. Scrivo sempre di notte, guardando fuori dalla finestra e ascoltando gli Smiths o altra roba triste. Forse avrei dovuto comprare musica più allegra, oggi. La colonna sonora delle cose che scriverò domani sarà Cliff Richards, o gli Wombles...

MOMENTO DI MERDA DELLA GIORNATA

Quello che è successo con Ali.

MOMENTO MAGICO DELLA GIORNATA

Un comico in tivù, che ha fatto una battuta dicendo che le vittime degli incendi dovrebbero fare attenzione a non "attaccarsi" troppo agli altri.

 

CAPITOLO 16

 

Sulla lavagna bianca era scritta una sola parola, con un pennarello rosso.

UMIT.

«Significa "speranza", in turco» disse Tughan.

I presenti si scambiarono occhiate. Thorne pensò che se gli occupanti del camion erano nelle mani di Billy Ryan la speranza per loro era davvero poca.

Era sabato mattina, il camion abbandonato era stato scoperto il giorno prima. La squadra dell'SO7 era di nuovo a Becke House, per lavorare sul nuovo sviluppo. Ma l'unica cosa che si stava sviluppando, con il passare del tempo, era un senso di frustrazione.

«L'Ufficio Dazio e Dogane sta facendo le sue indagini» disse Tughan. «Non so cosa scoprirà, ma sicuramente qualcosa più di noi.»

Thorne era in piedi in un angolo della sala di pronto intervento, con Russell Brigstocke e il resto della squadra: Kitson, Stone, Holland e i loro omologhi dell'SO7. Osservavano Tughan camminare avanti e indietro sulla moquette di fronte alla scrivania. Era elegante come sempre, ma sotto il vestito impeccabile e ben stirato anche lui cominciava a sembrare stanco e provato. Forse non stanco come Thorne, ma la distanza si stava accorciando.

«Intendi dire che non abbiamo scoperto nulla sui fratelli Zarif?» chiese Thorne.

Holland alzò una mano. «Sicuramente deve esserci qualcosa che li collega a questo» disse in tono esasperato. «Qualcosa che possa almeno darci un pretesto per rendere loro la vita difficile.»

Tughan posò sul tavolo il suo caffè e sfogliò il rapporto sul sequestro del TIR. «Tra quel camion e i fratelli Zarif ci sono non so più quante compagnie di trasporti, agenzie di leasing e quant'altro. Loro sono i proprietari del veicolo, in teoria,ma se investiamo tempo e risorse cercando di collegarli a quello che il veicolo trasportava saremo noi ad avere una vita difficile.»

«Scommetto che ridono di noi» disse Holland. «E probabilmente ride di noi anche Billy Ryan.»

Tughan scrollò le spalle. «Senza cadaveri, e senza le persone che erano dentro quel TIR, non abbiamo un CDN, cioè un cazzo di niente.»

«Non riesco a credere che abbiano coperto ogni dettaglio» disse Holland, raccogliendo una piccola dose di mormorii di approvazione.

«Sappiamo esattamente quante persone c'erano in quel camion?» chiese Kitson.

Tughan scosse la testa. «Da un minimo di dieci o dodici, a un massimo di... non so, cinquanta?»

«Era quello il numero di cadaveri trovati in quel container a Dover, se non sbaglio.»

«Erano di più» disse Thorne. Ricordando l'odore che aveva sentito aprendo le porte del camion, la sera prima, provò a immaginare cosa doveva aver sentito la persona che aveva aperto le porte di un container, a Dover, un paio di anni prima, e aveva trovato í cadaveri di cinquantotto immigranti clandestini cinesi, morti soffocati.

All'epoca la faccenda aveva suscitato molto scalpore. Erano stati chiesti a gran voce maggiori controlli per bloccare quel barbaro commercio. Ma Thorne pensava che sarebbe stato fatto molto di più, forse, se i cadaveri trovati in quel container fossero stati quelli di cinquantotto gattini o cagnolini.

«Ma come possono passare in tanti?» chiese Stone. «Quei TIR non vengono perquisiti alla frontiera?»

«A volte sì e a volte no» rispose Tughan. «E comunque loro possono nascondersi in scomparti segreti, o dietro un carico finto...»

Stone scosse la testa, incredulo. «Avrei detto che dopo la storia di Dover i controlli sarebbero stati più accurati.»

"Non ci sarebbe voluto molto a trovare quegli immigranti cinesi" pensò Thorne. Si erano nascosti dietro poche casse di pomodori.

«I contrabbandieri non sono stupidi» disse Tughan. «Cercano di evitare le dogane dotate di scanner, ma anche quelle che li hanno sono oberate di lavoro. Possono perquisire solo un TIR ogni tanto, altrimenti si formerebbero code di cinquanta chilometri sulle autostrade o nei porti allo sbarco dei traghetti.»

Tughan aveva ragione. La sera prima Thorne, visto che non riusciva a dormire, aveva acceso il suo computer e aveva navigato in rete per un paio d'ore. Era entrato nel sito del National Criminal Intelligence Service, e aveva scaricato tutte le informazioni possibili sulla malavita organizzata turca. Aveva visto come operavano le gang, in Turchia e in Inghilterra, poi aveva seguito un link che lo aveva portato alle pagine sul business dell'immigrazione clandestina.

La lettura non l'aveva aiutato a dormire.

I doganieri erano più preoccupati di trovare alcol e tabacco importati illegalmente che persone introdotte clandestinamente nel paese. Erano stati installati alcuni scanner, ma il traffico era troppo intenso per poter effettuare dei controlli efficaci. Da Dover passavano settemila camion al giorno. La percentuale massima che la dogana riusciva a controllare si aggirava intorno al cinque per cento. Per questo spesso i contrabbandieri non facevano troppi sforzi per nascondere il carico illecito. Potevano permettersi di essere sfacciati.

Tughan parlò ancora un po' dell'impossibilità di arginare il commercio di immigrati clandestini. Menzionò gli sforzi congiunti della polizia, dell'Ufficio Immigrazione, e addirittura dei servizi segreti. Thorne fu quasi sul punto di intervenire. Non accadeva spesso che conoscesse fatti e dati in modo preciso. Ma lasciò perdere. Era mattina presto, e alcuni suoi colleghi forse non avrebbero retto allo shock.

Yvonne Kitson si era portata dietro un thermos di Earl Grey. Se ne versò una tazza. «Quindi finché non troveremo queste persone, o non sapremo cosa ne ha fatto Billy Ryan, non potremo sapere chi sono o come sono arrivate qui.»

Brigstocke indicò la parola scritta sulla lavagna. UMIT, speranza. In un rosso che ricordava il colore dei pomodori schiacciati. «Possiamo essere certi che almeno alcuni di loro sono turchi» disse. «Probabilmente curdi.»

«La rotta più probabile è quella che dalla Turchia e dal Medio Oriente passa attraverso i Balcani» disse Thorne. Ignorò lo sguardo sorpreso di Brigstocke e quello di finto orrore di Tughan, e concluse: «Per poi attraversare l'Adriatico e sbarcare in Italia».

«I contrabbandieri hanno diverse possibilità» disse Tughan. «Cambiano spesso le loro rotte per sicurezza, ma ci sono alcuni punti chiave che restano sempre gli stessi. Mosca, Budapest, Sarajevo, per esempio. E soprattutto Istanbul, che si trova proprio su una delle più frequentate rotte di accesso verso l'Europa occidentale.»

«E in Turchia,» intervenne Brigstocke «i fratelli Zarif hanno sicuramente un sacco di contatti.»

Holland si sfregò gli occhi. «Ma come fanno a portarli qui?»

«Hanno diverse possibilità anche per questo» disse Thorne. «Possono rischiare di passare attraverso uno dei porti maggiori, oppure tentare una rotta più sicura attraverso l'Irlanda. E ce n'è anche un'altra che sta diventando popolare, quella che passa dall'Olanda e dalla Danimarca, attraverso le isole Faer Øer e le Shetland, per arrivare in Scozia.»

Seguì un breve silenzio, carico di stupore.

«Sei stato scoperto» disse alla fine Yvonne Kitson. «Ora confessa da quale pianeta vieni e cosa hai fatto a Tom Thorne.»

L'agente Richards, quello dei cerchi concentrici, interruppe la risata collettiva quasi prima ancora che iniziasse. «Cosa faremo adesso, signore?» chiese. «Riguardo agli Zarif e a Billy Ryan, intendo dire.»

Tughan gli rivolse un sorriso grato per avergli di nuovo passato la palla. «Non è semplice, perché tutte e due le bande hanno buone ragioni per starsene tranquille, almeno per un po'. Gli Zarif sanno che stiamo indagando sul loro traffico di immigrati illegali, e Ryan ha tra le mani un certo numero di tali immigrati di cui liberarsi.»

«Io non riesco a immaginare Memet Zarif e i suoi fratelli che se ne stanno tranquilli a lungo» disse Thorne. «Vorranno colpire Ryan, e vorranno farlo in modo esemplare.»

Tughan ci pensò su un attimo. «Forse, ma non credo che lo faranno subito. E io voglio che utilizziamo il tempo a nostra disposizione per una politica di disturbo. Dobbiamo fare in modo che né Ryan, né gli Zarif, riescano a seguire i loro affari.» Indicò Holland, ricordando a tutti quello che aveva detto poco prima. «Dobbiamo render loro la vita difficile.»

Thorne sapeva che l'espressione "politica di disturbo" essenzialmente significava arrestare, o almeno sottoporre a ripetuti controlli, una quantità di pesci piccoli di entrambe le organizzazioni: spacciatori, esattori, eccetera. Quelli che popolavano il cerchio esterno di Richards. Era un sistema che costava moltissimo in termini di tempo e di risorse, e inoltre rischiava di non avere un grande effetto sui capi. Nelle circostanze giuste quel tipo di azione poteva produrre dei risultati, ma in quel caso c'erano già troppi cadaveri in giro, e Thorne desiderava procurare ai fratelli Zarif qualcosa di più di un semplice danno economico.

«Non sei convinto, Tom?» chiese Tughan. Come al solito, la faccia di Thorne aveva rivelato i suoi pensieri.

Thorne detestava gli sguardi e i sospiri di quelli che non avevano le palle o il cervello per parlare chiaro. «È come se volessimo prendere un assassino» disse. «E mentre aspettiamo che colpisca di nuovo cerchiamo di bloccargli la carta di credito, o di decurtargli lo stipendio.»

La risposta di Tughan fu notevolmente calma, persino gentile. «Qui non si tratta di delinquenti comuni, Tom. Questi uomini non sono assassini ordinari.»

Thorne scambiò occhiate e alzate di spalle con Brigstocke e Dave Holland. Sapeva che Tughan aveva ragione, ma questo non lo faceva sentire meglio. Non avrebbe mai creduto che sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbe aspettato con impazienza un caso riguardante un "normale" serial killer psicopatico.

 

Sul telefonino c'era un SMS di Hendricks, il quale lo avvisava che avrebbe dormito da Brendan. Thorne rispose scusandosi per essere stato scortese la sera prima, e dicendo che sperava non fosse quello il motivo per cui l'amico aveva deciso di non tornare a dormire.

«Cosa farà Ryan a quella gente?» chiese Kitson.

Lei e Thorne erano di nuovo in ufficio, e lavoravano alle scartoffie, mentre in corridoio Brigstocke e Tughan stavano ancora mettendo a punto il "piano di disturbo". Thorne guardò l'orologio prima di rispondere. Un altro quarto d'ora e sarebbe andato a casa.

«Probabilmente la stessa cosa che avrebbero fatto gli Zarif» disse. «Li sfrutterà. Quei poveri bastardi pagano tutto il denaro che hanno per venire qui, e quando arrivano scoprono che devono ancora un sacco di soldi agli "uomini d'affari" che hanno organizzato il trasporto. L'immigrazione clandestina coinvolge organizzazioni criminali di diversi paesi, e poi ci sono ruote da ungere, doganieri da pagare perché chiudano un occhio, eccetera. E il costo di tutto questo viene caricato sulle spalle di quei poveretti dentro i camion.»

«Quindi anche se arrivano tutti interi,» disse Kitson «sono indebitati fino al collo.»

«Esatto. Ma per fortuna quelli come i fratelli Zarif danno loro un lavoro, così possono pagare il debito. A una sterlina e mezza l'ora, ci vogliono solo un paio d'anni di lavoro gratis...»

«E loro non possono opporsi.»

«Se lo fanno gli viene ricordato senza tanti complimenti con chi hanno a che fare. Ce ne sono tanti, là fuori, che ci rubano il lavoro e prendono il sussidio di disoccupazione pagato dallo stato con le nostre tasse. Chi se ne accorge se due o tre scompaiono all'improvviso?» Thorne abbassò la voce, abbandonando l'ironia. «E c'è anche di peggio. I gangster hanno molti amici nel paese di provenienza di quei poveracci, e loro sanno che qualunque tentativo di ribellarsi può mettere in pericolo i familiari rimasti in patria.»

Kitson sospirò. «Insomma, vengono qui a fare la bella vita...»

Thorne pensò a tutti i cliché.

Era difficile immaginare la speranza come qualcosa di eterno, ma era fin tropo facile immaginarsela schiacciata e distrutta. La speranza tendeva a morire di morte violenta.

La speranza sanguinava.

Thorne gettò in un cassetto alcune carte che non aveva ancora guardato, e quell'azione lo distrasse dal pensiero della donna che aveva incontrato sulla metropolitana, con il suo bicchiere di polistirolo in cui non risuonava neppure una moneta.

Thorne aveva letto parecchio sul traffico di immigrati, la notte prima. Sapeva che molte ragazze venivano rapite, costrette a diventare tossicodipendenti e poi a prostituirsi. Immaginava che gli Zarif avessero interessi anche in quel campo.

Udì un suono di voci concitate fuori dalla porta e tese l'orecchio. Holland aprì la porta e mise dentro la testa. «Hanno trovato l'autista del camion» disse. «In un bosco vicino a un'area di sosta sulla A7.»

«Come è morto?»

Holland entrò, senza richiudere la porta. «Gli hanno sparato in testa.»

«Carino.»

«Ma non prima di averlo picchiato quasi a morte con un grosso ramo.»

«La A7» disse Kitson. «È la strada principale che collega Edimburgo e Carlisle. Il mio ex marito ha dei parenti da quelle parti.»

Holland prese il suo taccuino e cominciò a sfogliarlo in fretta.

Sembrava proprio che Thorne avesse visto giusto. Il camion era stato sequestrato dopo essere venuto dalla Scozia attraverso la rotta che lui aveva descritto.

Holland aveva trovato quello che cercava. «Ecco» disse. «L'area di sosta è a nord di Galashiels. Sono stati i ragazzi di Lothian a trovare i corpi.»

«I corpi?» chiese Thorne. «Ce n'era più d'uno?»

«Altri due, oltre a quello dell'autista. Niente documenti. Ferite da arma da fuoco alla testa.»

Kitson lasciò andare il fiato come se all'improvviso sapesse di marcio, e inalò aria fresca. «Un paio di immigrati devono aver cercato di ribellarsi» disse, guardando Thorne.

Lui annuì. «O di scappare.»

«Credo sia questa la teoria su cui stanno lavorando» confermò Holland.

Thorne immaginò i due uomini che correvano disperati tra i rami, e cadevano ancora prima che l'eco degli spari si fosse spenta. Qualunque fosse l'ultima parola che era passata loro per la mente, prima di morire, di certo non era stata umit.

Dietro le spalle di Holland apparvero Brigstocke e Tughan.

Holland si fece da parte per lasciarli entrare.

«Siamo a dieci cadaveri» disse Tughan. «Una cifra inaccettabile. Questa guerra deve essere fermata.»

Una cifra? Detto così, sembrava esistesse una cifra accettabile di morti ammazzati, che però adesso era stata superata. In ogni modo, Thorne aveva l'impressione che le nuove notizie avessero convinto Tughan a lasciar perdere il suo "piano di disturbo". Definitivamente l'ispettore capo ora sembrava avere in mente qualcosa di più diretto.

Brigstocke si passò una mano tra i capelli folti, e spinse gli occhiali sul naso con un dito. «Dieci cadaveri» disse. «E le vittime civili cominciano a superare i combattenti.»

«Allora smettiamo di occuparci delle scimmie,» disse Thorne «e andiamo a pescare i suonatori di organetto.»

«È esattamente quello che faremo» disse Tughan.

Thorne aveva un appuntamento, più tardi, ma era convinto di poter arrivare in tempo. Green Lanes non era troppo lontano da casa sua.

«Arresteremo Billy Ryan» disse Tughan. «Lo inchioderemo con il caso Rooker, e prima o poi riusciremo a mandare in galera anche i fratelli Zarif. Ma ora il nostro obiettivo principale deve essere quello di impedire che ci siano altri omicidi.»

L'espressione "prima o poi" raffreddò l'entusiasmo di Thorne.

«Mi rivolgerò immediatamente al sovrintendente, e molto probabilmente lui dovrà rivolgersi ancora più in alto. Contatteremo ufficialmente Billy Ryan attraverso il suo avvocato, e i fratelli Zarif attraverso un leader della loro comunità etnica.» Tughan non sembrava rivolgersi a nessuno in particolare, come se stesse cercando di convincere prima di tutto se stesso. «Le cose ora sono arrivate a un punto in cui intervenire è meglio che continuare a indagare. Parlare con queste persone intorno a un tavolo non è quello che facciamo di solito, ma se può contribuire a evitare altri morti, io sarò felice di farlo.»

Thorne restò pensieroso un paio di secondi prima di parlare. In fondo non era sorpreso che Tughan proponesse un piano del genere.

«Dobbiamo portare panini per tutti?» chiese.

 

«Dove va?» chiese l'uomo dietro il banco, senza quasi alzare lo sguardo dal giornale. Il forte accento rendeva appena intelligibili le parole.

«Io non vado da nessuna parte» disse Thorne. «Tu invece vai dentro a dire al tuo capo che qualcuno desidera scambiare due parole con lui.»

L'uomo adesso era attentissimo. Thorne gli indicò la stanza male illuminata alle sue spalle con una mano, mostrandogli il tesserino con l'altra. Sapeva che c'era anche un altro uomo seduto su una poltrona alla sua sinistra che lo teneva d'occhio. «Più veloce che puoi.»

L'uomo sbatté giù il giornale e sparì nella stanza.

L'ufficio della compagnia di taxi era costituito da una sala d'aspetto grande poco più di un armadio, e da un numero imprecisato di stanze sul retro. Gli autisti dei taxi probabilmente aspettavano al volante delle loro Toyota o Vauxhall, oppure seduti a un tavolino nel ristorante degli Zarif alla porta accanto. Thorne alzò gli occhi a guardare il televisore fissato sopra la porta d'ingresso. Trasmetteva un film che non riconobbe. In quel momento forse i notiziari stavano mostrando i tre gol che gli Spurs avevano segnato contro l'Everton quel pomeriggio. L'uomo seduto in poltrona incrociò il suo sguardo e sollevò un sopracciglio, come se entrambi fossero clienti in attesa di un taxi che non arrivava. Poi si alzò e passò nel retro attraverso una porta laterale.

Pochi secondi dopo la porta tornò ad aprirsi e apparve Memet Zarif. Quello dietro il banco riprese la sua posizione, e dietro Memet Thorne distinse nella penombra l'uomo che era appena entrato.

«Vuole un taxi, signor Thorne?» chiese Memet. Indossava una semplice camicia bianca, pantaloni neri e mocassini con la nappa.

Thorne sorrise. «No, grazie, preferisco arrivare a casa tutto intero. L'autista dell'ultimo taxi che ho preso non sembrava sapere che i semafori rossi segnalano di fermarsi.»

«I miei autisti sanno quello che fanno.»

«Ne è sicuro?»

«Certo.»

«Sanno anche come riempire il modulo dell'assicurazione?»

Memet rise, e si voltò a guardare gli altri due. L'uomo alle sue spalle andò a sistemarsi dietro il banco accanto all'altro. Passando, disse qualcosa in turco a Thorne.

«Altrettanto a te» rispose Thorne. Poi tornando a guardare Memet disse: «Quindi lei non pensa che valga la pena di effettuare un'ispezione per controllare che i suoi fantastici tassisti siano assicurati». Dalla tivù salì il rumore di una sparatoria, e Thorne dovette alzare la voce per farsi sentire. «Sarebbe uno spreco di tempo, dico bene?»

La sparatoria finì e Thorne riuscì persino a udire il sospiro di Memet. «Ci considera stupidi?»

Tutti, continuamente, dicevano a Thorne che quelli come Memet Zarif e Billy Ryan non erano affatto stupidi. Thorne era convinto che fossero astuti,ma si rifiutava di credere al mito dei gangster geniali. Certo, ne aveva incontrati personalmente alcuni davvero intelligenti, ma tanti altri erano più che altro furbi, e riuscivano ad avere successo basandosi principalmente sull'istinto, proprio come i poliziotti che cercavano di incastrarli.

E l'istinto, come Thorne sapeva fin troppo bene, era fallibile.

Ci considera stupidi?

Memet evidentemente non si riferiva solo ai taxi...

Thorne gli passò davanti ed entrò nel corridoio oltre la porta laterale. «Mi piace come avete sistemato i locali» disse, mentre gli uomini dietro il banco si muovevano per intercettarlo.

Memet lo seguì sul pavimento di linoleum unto. Il corridoio aveva un odore stantio, e sulle pareti in alcuni punti la vernice era scrostata.

«Avete fatto tutto da soli, o vi siete serviti di professionisti?»

«Cosa vuole, signor Thorne?»

I due scagnozzi guardarono Memet in attesa di istruzioni. In fondo al corridoio c'era una specie di tinello male illuminato, dove tre uomini giocavano a carte. Uno di essi era Hassan Zarif, il quale appena vide Thorne fece per alzarsi, ma si rilassò subito vedendo il fratello maggiore alle spalle del poliziotto.

Gli altri due uomini seduti al tavolo erano Tan, il fratello più piccolo, e l'uomo robusto che Thorne aveva visto al ristorante la volta che era stato li con Holland. Per alcuni secondi l'unico rumore fu quello del filtro dell'aria di un grande acquario pieno di pesci tropicali sistemato su un mobile di quercia.

Thorne indicò il tavolo. La pila di banconote da cinque e da dieci al centro era sul punto di rovesciarsi. «Potrei fare il quarto a bridge, se vi va» disse.

Memet lo superò e andò a occupare la sedia vuota. «Dica quello che è venuto a dirci e se ne vada.»

«Parlando di autisti, prima, mi è venuto in mente che è appena stato ritrovato l'autista del vostro camion.»

Memet fece una scrollata di spalle e mostrò una faccia confusa. «Il nostro camion...?»

Hassan gli disse qualcosa in turco. Memet annuì.

«La polizia di Thames Valley mi ha contattato ieri mattina» disse Hassan. Si rivolgeva anche ai fratelli, come per metterli al corrente di alcuni problemi di minore importanza. «Il TIR non era danneggiato, e la compagnia di trasporti sporgerà denuncia per il carico rubato, quindi non ho pensato che fosse necessario contattare la nostra compagnia di assicurazioni.» Guardò Thorne. «Non ne avevo ancora parlato ai miei fratelli, ma si tratta di un problema non grave.»

«Trasmetta per favore la nostra gratitudine agli agenti che l'hanno trovato» disse Memet.

Thorne doveva ammettere che giocavano bene. «Per l'autista il problema è stato abbastanza grave» disse. «Quando l'hanno trovato gli mancava quasi metà della testa.»

L'uomo robusto non riuscì a nascondere un sorriso, e abbassò subito gli occhi sulle banconote.

Hassan si sfregò con una mano il mento prominente, producendo un rumore raspante contro la barbetta corta. «Almeno una cosa è chiara» disse. «Possiamo essere certi che l'autista non era in combutta con i malviventi.»

Memet fece una faccia scioccata piuttosto convincente, ma Thorne era certo che la notizia fosse un sollievo per lui. Un autista morto non avrebbe potuto rivelare nulla alla polizia. «Lo hanno ucciso?» chiese ad Hassan. «Perché? Cosa trasportava il camion?»

Decisamente, giocavano bene. E non erano affatto stupidi.

«La polizia mi ha detto che si trattava di lettori CD» rispose Hassan.

«Lettori DVD» lo corresse Thorne. «Ma i sequestratori non sono riusciti ad appropriarsi dell'intero carico.»

L'uomo robusto non alzò gli occhi dalle banconote, mentre i due fratelli fissarono Thorne. Memet con uno sguardo vuoto, Hassan cercando di nascondere la curiosità, e Tan con il suo sguardo da duro.

«Già» disse Thorne. «Sembra che due di quei lettori DVD siano stati uccisi mentre cercavano di scappare.»

Solo Memet Zarif riuscì a sostenere lo sguardo di Thorne.

«Comunque non preoccupatevi» continuò Thorne. «Appena scopriremo qualcosa di più ve lo farò sapere. Volevo solo informarvi di quanto abbiamo scoperto finora.»

Rumore di bolle dall'acquario. Voci attutite dal televisore in sala d'aspetto.

Thorne si voltò per andarsene, e in quel momento notò una figura seduta nell'ombra, che prima gli era sfuggita. Aguzzò lo sguardo, e riconobbe il figlio di Muslum e Hanya Izzigil.

Thorne fece un passo verso di lui: «Yusuf...».

Forse era solo la luce, ma gli occhi del ragazzo erano cambiati. Quando Thorne gli aveva parlato, il mese prima, erano pieni di lacrime. Ora c'era un lampo di sfida nel modo in cui il ragazzo fissava l'uomo che non era riuscito a dargli giustizia.

Altri dovevano avergli fatto promesse che probabilmente erano in grado di mantenere.

«Ci stiamo occupando noi di Yusuf, adesso» disse Memet.

Thorne fissò il ragazzo ancora per un paio di secondi, in cerca di un segnale qualunque che gli facesse capire che lui non era passato del tutto dalla loro parte. Non lo trovò. Si voltò e tornò indietro lungo il corridoio. «Vi lascio alla vostra partita...»

«È sicuro di non volere un taxi per tornare a casa?» chiese Memet.

Thorne non rispose, e non si voltò.

Tan Zarif parlò per la prima volta. «Possiamo farle un buon prezzo. Da Green Lanes a Kentish Town per cinque sterline. Niente male, eh?»

Thorne sentì un nodo allo stomaco. Si voltò e fissò Tan negli occhi, cercando di non lasciar trasparire il panico. «Pensavo che avessimo già parlato di questo» disse. «O la pianti con le battute da duro, tipo "sappiamo dove abiti", o cambi look. Quella barbetta alla George Michael non spaventa nessuno.»

Thorne trattenne il respiro mentre percorreva il corridoio, attraversava la sala d'aspetto e usciva in strada. Soltanto allora lo lasciò andare, e in quel momento vide Arkan Zarif che lo fissava da dietro la porta del ristorante.

Il vecchio lo salutò con un gesto, poi disse: «Vuole entrare per un caffè? O per un suklak,magari?».

Thorne gli rispose continuando a camminare verso la macchina. «Non posso. Ho un appuntamento...»

Aveva effettivamente meno di un'ora per andare a casa, farsi una doccia e cambiarsi, ma non era quello il motivo per cui aveva rifiutato l'invito. Anche se avesse avuto tempo, era sicuro che il caffè gli sarebbe sembrato amaro.

 

Quando pensava alla ragazza che bruciava, pensava anche alle altre. Alle sue amiche.

Erano state loro a vedere per prime le fiamme. Quella più vicina, la vera Alison Kelly, aveva urlato come se fosse stata lei ad andare a fuoco. Lui aveva fatto un salto, forse aveva reagito anche lui con un grido a quell'urlo che lo aveva trapassato come una lama. Aveva voltato la testa verso di lei, e aveva visto le fiamme riflesse nei suoi occhi spalancati. Le fiamme che risalivano lungo il corpo dell'altra ragazza sembravano minuscole nei suoi occhi. Poi lui si era girato ed era fuggito, ma ricordava ancora quelle piccole fiamme danzanti negli occhi castani.

Gli erano sembrate molto lontane.

Mentre correva giù dalla collina, verso la macchina, quell'urlo lo aveva seguito. Ne sentiva l'eco sulla schiena, come una spinta che per poco non lo aveva fatto inciampare. Poi l'urlo era cresciuto, al primo se n'erano aggiunti altri, e lui aveva corso ancora più forte.

Prima di salire in macchina si era fermato un secondo, e ora ricordava distintamente quel momento. Senza fiato, a occhi chiusi, con un'immagine dietro le palpebre.

L'immagine delle fiamme che danzavano negli occhi della ragazza che lui avrebbe dovuto uccidere.

 

CAPITOLO 17

 

«Come ha fatto ad avere il mio numero di telefono?» chiese Thorne.

Alison Kelly posò il bicchiere e spinse una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Forse era sul suo biglietto da visita.»

Thorne scosse la testa. Come tutti i colleghi, lui aveva un biglietto da visita generico, con l'indirizzo di Becke House e il numero di telefono e di fax dell'ufficio. Sopra c'era la scritta in blu "Lavoriamo per una Londra più sicura", e in mezzo uno spazio per scrivere il numero del cellulare o di casa.

«Io non scrivo mai il mio numero fisso sul biglietto da visita» disse Thorne. «E sull'elenco non c'è.»

Alison lo fissò senza rispondere.

«Ha trovato il mio numero nello stesso modo in cui è venuta a sapere tutto il resto. Dico bene?»

Erano seduti a un tavolo d'angolo allo Spice of Life, in Cambridge Circus. Lei sorseggiava un gin and tonic, Thorne una Guinness. Il locale conteneva chilometri di velluto rosso, troppe finiture in ottone ed era inspiegabilmente affollato di turisti scandinavi dall'aspetto schifosamente sano.

Thorne aprì un pacchetto di patatine, e ne prese alcune. «Non mi darà mai una risposta diretta?»

«Fino a quattordici anni sono stata la figlia di un gangster» disse lei. «Poi tutto è cambiato. Papà si è ritirato e ha trascorso il resto della sua vita giocando a golf e facendo parole crociate. Qualche anno dopo io ho sposato Billy, ma una volta finito il matrimonio ho chiuso con quella vita. Mia madre e io i gangster li vedevamo solo in televisione. Io facevo la segretaria in un ufficio legale, malgrado avessi un pony e l'accento di una che ha frequentato le migliori scuole. Ora faccio lo stesso lavoro, non ho più il pony e ho meno accento. E sono sempre fuori dalla malavita. Tuttavia...»

«Tuttavia?»

Lei sorrise e vuotò il bicchiere. «Ho ancora diverse amiche nell'ambiente. Di tanto in tanto andiamo fuori a cena. Ha presente: ristorante di famiglia, vino e liquori offerti dalla casa. Io mi lamento del mio lavoro, loro delle condanne inflitte a mariti e fidanzati.»

«Sembra divertente...»

«Alcune di loro magari conoscono qualche agente o funzionario di polizia, a cui possono chiedere un favore. E comunque per ottenere il numero privato di un poliziotto non ci vuole una laurea in fisica nucleare.»

«Dovrei essere scioccato» disse Thorne. «Ma per il momento riesco soltanto a pensare che vorrei un'altra birra.»

Lei spinse indietro la sedia e prese i due bicchieri vuoti. «Un'altra Guinness?»

Per un'ora circa parlarono di come era difficile fare quello che gli altri si aspettavano da te, ed entrambi si dimostrarono molto esperti in questo campo.

Thorne disse che se lui fosse stato il tipo di persona che fa quello che ci si aspetta da lui, quella sera non sarebbe stato lì con lei.

Alison parlò della propria riluttanza a spendere i soldi del padre senza fare nulla per guadagnarsi la vita. Sua madre le aveva offerto di aprire un'attività sua, ma lei aveva rifiutato.

«Sembra che lei voglia prendere le distanze» disse Thorne. «Da quei soldi e dal modo in cui sono stati guadagnati. Come se fossero loro i responsabili di ciò che è accaduto a Jessica.»

Lei arrossì leggermente in volto. «Se mio padre non fosse stato quello che era, a Jess non sarebbe accaduto niente.»

Entrambi bevvero un sorso per riempire il silenzio che seguì. Lei aveva sostituito il gin and tonic con del vino bianco.

«Perché ha sposato Billy Ryan?» chiese Thorne.

Lei ci pensò su per alcuni secondi. Dal juke-box del bar accanto arrivava la musica di una band di ragazzini.

«So che le sembrerà assurdo» disse poi. «Ma all'epoca pensai che fosse una buona idea.»

«Lui doveva avere almeno trentacinque anni.»

«Ne aveva di più. E io ne avevo solo diciotto.»

«Anche i suoi pensarono che fosse una buona idea?»

Alison Kelly sorrise. «Mia madre no, per niente. Era convinta che la differenza di età fosse troppa. Voglio dire, il figlio di Billy aveva solo dieci anni meno di me. Mio padre però ne fu felicissimo. Alcuni dei suoi vecchi amici anche. Lui ormai era fuori dal gioco, ma diverse persone pensarono che quel matrimonio fosse un modo di costruire un ponte tra la vecchia guardia e la nuova.»

«A sentirla si direbbe che fosse un matrimonio combinato...»

Lei scosse la testa. «Mi piacerebbe poterlo dire. Certo, ero contenta che il mio matrimonio servisse anche a quello, ma la pura verità è che io amavo Billy.» Tacque, ma si vedeva che voleva aggiungere qualcosa e cercava le parole giuste. «Era un uomo molto interessante.»

Thorne pensò al Billy Ryan che aveva conosciuto. Molti forse l'avrebbero descritto come un uomo interessante, ma faceva fatica a immaginare che qualcuno potesse innamorarsi di lui. «Cosa andò storto?»

Lei bevve un lungo sorso di vino. «All'inizio niente. Cioè, non riuscii mai ad andare d'accordo con Stephen, che era un piccolo bastardo anche allora. Ma non era lui il problema. Era suo padre. Billy aveva due facce.»

Thorne annuì. Non conosceva molte persone che non ne avessero almeno un paio.

«C'era una parte di lui,» disse Alison «che voleva solo divertirsi, andare in giro e frequentare gli amici. Mi portava in tutti i club. Gli piaceva vestirsi bene, e stare intorno agli attori famosi e alle pop star, agli scrittori...»

«Immagino che anche gli attori e gli scrittori ne fossero felici.»

«Quando eravamo solo noi due, lui era piacevole. Se eravamo noi due e una bottiglia, le cose peggioravano rapidamente. Forse lui si divertiva anche così, non lo so, ma io no.»

Thorne vide il suo sguardo incupirsi, e capì cosa voleva dire. Ricordò i piedi piccoli di Ryan, le scarpe lucide, ma anche le spalle poderose sotto la giacca.

Due facce. Il pugile e il ballerino.

«È un buon motivo per lasciare un uomo» disse.

«Fu lui a lasciare me.»

«Ah.»

«Disse che non ce la faceva più a sopportare tutti i miei problemi. Tutte le storie riguardo ai miei sensi di colpa per quello che era accaduto a Jess.»

Thorne fece fatica a restare zitto. Problemi? Storie? Le colpe erano solo di Billy Ryan.

Lei vide la sua faccia sorpresa, ma non sembrò darle importanza. «Soffrivo di sbalzi di umore spaventosi, in questo lui aveva ragione. Ma certamente non mi aiutava. Continuava a dirmi che ero nevrotica, che odiavo me stessa, che ero una persona impossibile, che dovevo superare una buona volta quello che era accaduto nel campo giochi della scuola...»

Quando un uomo pagato da Billy Ryan era venuto a uccidere lei; quando le fiamme avevano divorato la sua migliore amica davanti ai suoi occhi.

«No» disse Thorne. «Direi proprio che non l'aiutava per niente.»

Lei fece ruotare il vino rimasto nel bicchiere. «Capii che avevo bisogno di aiuto, e dopo la fine del matrimonio spesi una buona parte del denaro di mia madre per parlare con tizi che mi ascoltavano, a cinquanta sterline l'ora.»

Thorne la fissò. Lei sostenne il suo sguardo. «Adesso sto bene» disse.

«Ne sono felice per lei.»

Alison vuotò il bicchiere e fece una serie di smorfie non particolarmente comiche, ma Thorne rise lo stesso.

«Andiamo a mangiare qualcosa» disse lei, alzandosi e afferrando la borsetta.

Rooker fissava un ragno sul soffitto, desiderando che ci fosse più rumore. In prigione c'era sempre rumore. Sempre. Anche mentre dormivano, cinquecento uomini potevano fare un rumore pazzesco. Di giorno c'erano i passi lungo i corridoi e sulle scale, il clangore di chiavi e secchi di metallo, le voci che echeggiavano da un pianerottolo all'altro. Anche un rumore minimo, come per esempio una forchetta che batteva su un piatto, era sempre in qualche modo amplificato e distorto dalla rabbia che ristagnava nell'aria, fino a diventare assordante. Era una cosa a cui ci si abituava.

Ora tutto quel chiasso gli mancava. E il silenzio lo teneva sveglio.

Rooker sorrise. Ci sarebbe stato abbastanza rumore tra qualche settimana, quando sarebbe uscito. E ci sarebbe stato silenzio quando avrebbe voluto il silenzio. Avrebbe udito rumori che non sentiva più da molto tempo. Quello del traffico, dei pub affollati, degli stadi...

Quando tutto sarebbe finito.

Le sedute con Thorne e gli altri lo stancavano. Thorne soprattutto aveva un modo di scavargli dentro, di insistere e insistere, finché lo sforzo di ricordare e di ripetere sempre le stesse cose diventava insostenibile. Sapeva che doveva farlo, che ne valeva la pena, ma aveva dimenticato quanto odiava i poliziotti. Erano dei bastardi, persino quando ti trovavi dalla loro parte.

Sentì una specie di morsa allo stomaco, una sensazione che provava spesso, ultimamente, ogni volta che pensava alla vita fuori di prigione. Era come un panico ribollente. Aveva tanto sognato la libertà, e ora che l'aveva a portata di mano ne aveva paura. Aveva conosciuto parecchi detenuti che erano stati dentro molto meno di lui, e quando erano usciti non ce l'avevano fatta. La maggior parte si erano dati all'alcol o alle droghe. Altri facevano di tutto per tornare in galera, e prima o poi ci riuscivano.

Non sarebbe stato facile, lo sapeva, ma almeno, con Ryan fuori gioco, avrebbe avuto una possibilità. Avrebbe avuto il tempo di adattarsi.

Se mai avesse avuto un attimo di dubbio, se avesse pensato solo per un momento di dire a Thorne e agli altri di ficcarsi il loro accordo nel culo, gli sarebbe bastato pensare alla faccia di Ryan quella notte nella foresta di Epping, per decidere di andare avanti.

Uscire lo spaventava, ma Billy Ryan lo spaventava ancora di più.

Rooker si voltò verso il muro, soffocando un gemito di dolore. La ferita gli faceva ancora male. Decise che una volta fuori avrebbe lasciato che le acque si calmassero, poi avrebbe fatto qualche telefonata per vedere che qualcuno togliesse di mezzo quel figlio di puttana di Fisher.

 

Thorne guardò l'orologio sul comodino. Le 5.10 del mattino. Erano passati appena dieci minuti dall'ultima volta che aveva controllato l'ora.

Si voltò verso Alison Kelly, profondamente addormentata accanto a lui. Da quando aveva chiuso gli occhi per la seconda volta, non si era quasi mossa. Thorne invece non aveva più chiuso occhio dal momento in cui, tre ore prima, era stato svegliato dai suoi singhiozzi.

Ripensò a quello che le aveva detto.

Per qualche minuto non era riuscito a cavarle una parola di bocca. Ogni volta che tentava di parlare le lacrime glielo impedivano. Thorne l'aveva tenuta tra le braccia finché si era calmata, finché le lacrime e il muco si erano asciugati.

Allora lei gli aveva posto le stesse domande di prima, e altre che Thorne le aveva letto negli occhi ogni volta che lei parlava del passato. La disperazione nella sua voce era la stessa che Thorne aveva sentito nella voce dei genitori di bambini scomparsi, o in quella di chi aveva perso da poco una persona cara.

Cosa avrebbe potuto fare per impedire quello che era successo?

Perché Jessica era morta al posto suo?

Quando sarebbe finito quel tormento, per lei?

Thorne l'aveva tenuta stretta, e alla fine le aveva dato l'unica risposta che aveva, sperando che servisse per tutte le sue domande.

Dopo, lei si era calmata, ed era sembrata improvvisamente così stanca da non riuscire neppure a sollevare la testa. Era ricaduta sul cuscino, si era voltata verso il muro e non si era più mossa. Thorne sapeva che non era il caso di provare a chiederle, anche in un sussurro, se era sveglia.

Ora, mentre fissava il lampadario dell'Ikea, non sapeva più perché glielo aveva detto. Forse era stato il modo in cui lei aveva parlato di Ryan, nel pub. O forse era un semplice desiderio di dare, da parte sua. Una semplice fiducia nel potere calmante dei fatti. Comunque, qualunque fosse il motivo, ormai era fatto. Thorne era entrato in un territorio poco conosciuto, e non era certo di sapere cosa provasse.

Smise di cercare di dormire, e si alzò. Passando accanto ad Alison vide metà della sua faccia illuminata dalla luce pallida che filtrava dalle tende. L'altra metà era nascosta dal buio, come da una cicatrice.

 

6 giugno 1986

Oggi siamo andati tutti in un pub in campagna. Il tempo era bello e ci siamo seduti fuori. Così ho evitato di mandare il pranzo di traverso ai villici. Non credo che mi sentirò mai più a mio agio in posti affollati.

Mamma e papà mi hanno lasciato prendere mezza pinta di birra, il che è stata un'altra ottima ragione per stare fuori!

C'erano un sacco di vespe intorno al cibo, e questo infastidiva tutti. Io sono rimasta immobile, sperando che una vespa si posasse sulla mia cicatrice, per vedere cosa avrei sentito. Ma papà imprecava e agitava le braccia per mandarle via, e non sono riuscite ad avvicinarsi a me.

Papà aveva portato la sua nuova macchina fotografica, e ha scattato una quantità di foto. Tutti abbiamo sorriso, facendo finta che fosse una cosa normale e che a me non desse nessun fastidio.

Poi io ho fatto una battuta dicendo che la donna del laboratorio fotografico si sarebbe presa un bello spavento, sviluppando le foto, e mamma si è agitata un bel po'.

Ali mi ha chiamata nel pomeriggio per dirmi che doveva vestirsi di tutto punto per partecipare a un party elegante a casa dei suoi. Ha detto che ci saranno "parecchi" criminali incalliti che se ne staranno seduti sulle poltrone a mangiare salatini, cercando di fare conversazione.

Questo mi ha fatto ridere, e volevo raccontarlo a qualcuno. Però mamma e "soprattutto" papà non vogliono neppure sentir parlare di Ali e della sua famiglia. Evito di dire loro che Ali e io ci vediamo spesso dopo la scuola.

MOMENTO DI MERDA DELLA GIORNATA

Fuori dal pub c'era una famiglia seduta a un tavolino poco distante da noi. Avevano un figlio adolescente e una bambina di circa cinque anni, che mi fissava continuamente. Io ho fatto delle smorfie per farla ridere, ma lei sembrava solo spaventata.

MOMENTO MAGICO DELLA GIORNATA

Ero in cucina, con la radio accesa. Mamma era in giardino a fumare una sigaretta, e papà stava asciugando i piatti. Hanno mandato in onda una canzone degli Smiths, e io cantavo insieme alla radio, agitando le braccia come fa Morrissey. Quando sono arrivata al punto in cui dice che sa come si è sentita Giovanna d'Arco, papà mi ha guardata, con uno strofinaccio tra le mani. C'è stato un secondo di silenzio e poi tutti e due siamo scoppiati a ridere.

 

CAPITOLO 18

 

Se Thorne avesse dovuto fare un elenco di tutti i posti che non gli piacevano, il mare sarebbe stato in cima alla classifica. Certo, le spiagge inglesi erano forse meno attraenti di quelle dell'Australia o della Florida, ma non era quello il punto. Lì il mare sarebbe stato più caldo, più blu e più pulito, ma avrebbe avuto altri difetti.

Margate o Miami? Rhyl o Rio? Per Thorne si trattava, in parole povere, di scegliere tra la merda e gli squali.

Ciò nonostante, tutto quanto aveva visto di Brighton quella mattina non era stato spiacevole. Una corsa in taxi di dieci minuti dalla stazione a casa di Eileen, e cinque minuti a piedi dalla casa al pub.

Il padre di Thorne e il suo migliore amico, Victor, erano venuti lì insieme la sera prima. Victor aveva chiamato poco prima che Thorne uscisse per andare all'appuntamento con Alison Kelly. Erano arrivati tutti interi, gli aveva detto, e suo padre si stava comportando bene. La prospettiva del fine settimana a Brighton lo eccitava.

Thorne avrebbe voluto arrivare prima, ma uscire di casa quella mattina non era stato semplice. Alison lo aveva visto guardare l'orologio, mentre facevano colazione in cucina, e questo aveva aumentato l'atmosfera di disagio che incombeva su di loro, pesante come l'odore di un toast bruciato.

Quello che si erano detti, la notte prima...

Era più difficile da gestire del sesso. E il mattino, con la sua luce cruda, illuminava ciò che ormai non poteva più essere ripetuto...

Thorne ruttò, con in bocca ancora il sapore della Guinness della sera prima. Victor rise, Eileen cercò di fare la faccia severa, e suo padre non mostrò neppure di averlo notato.

«Scusate» disse Thorne. Sapeva di avere un aspetto un po' sbattuto. «Ho avuto una notte movimentata.»

Eileen bevve un sorso di succo di pomodoro. «Questo spiega perché sei arrivato così tardi.»

Praticamente era arrivato appena in tempo per bere qualcosa prima di uscire a pranzo.

«Non sarà facile trovare un ristorante decente» disse Eileen. «È domenica, saranno tutti pieni.»

Thorne non disse nulla. Sua zia era un'ancora di salvezza da quando a suo padre era stato diagnosticato l'Alzheimer, ma a volte poteva essere piuttosto rompiscatole.

«Birra o donne?» chiese Jim Thorne.

Thorne lo fissò. «Cosa?»

«Hai detto di aver avuto una notte complicata. Per via della birra o di una donna?»

«Forse tutte e due» disse Victor, ridendo. Poi entrambi scoppiarono a ridere.

Victor era probabilmente l'unico amico rimasto al padre di Thorne. Era più alto e più robusto di Jim, con meno capelli e parecchi denti falsi un po' malfermi. Quando erano insieme, lui e Jim Thorne sembravano un duo di comici un po' bizzarri.

«Forse» rispose, diplomaticamente.

Suo padre si chinò verso di lui. «È sempre una buona idea. Bevi qualche pinta, e anche le più brutte cominciano a sembrare... come si dice, il contrario di brutte...»

«Graziose? Attraenti?» intervenne subito Victor.

Jim Thorne annuì. «Esatto. Anche le più brutte cominciano a sembrare attraenti.»

Thorne sorrise. Un vero duo comico, in cui l'attore principale aveva bisogno di tanto in tanto di una spalla per le sue battute. Guardò Eileen, dall'altra parte del tavolo, e la vide scuotere la testa con un accenno di sorriso. Bene, non sembrava di cattivo umore.

Victor alzò il bicchiere, come se stesse per proporre un brindisi. «Si chiamano "occhiali da birra"» disse.

«Lo stesso vale anche per le donne, sapete» disse Eileen. Indicò verso il padre di Thorne. «Sono convinta che Maureen avesse bevuto, la sera in cui si è messa con te.»

Thorne guardò il padre, chiedendosi come avrebbe reagito. Non avevano mai parlato molto di sua madre, da quando era morta.

Jim Thorne annuì vigorosamente. «Penso che tu abbia ragione, Eileen» disse. «Doveva aver bevuto qualcosa di forte.» Sollevò il bicchiere fin quasi a coprire la faccia. «Io invece ero completamente sobrio.»

Il pub era vecchio stile, nel senso peggiore del termine, ed era mezzo vuoto. Loro sedevano in una stanzetta separata, accanto all'ingresso, intorno a un tavolo di metallo. L'assenza di atmosfera poteva essere imputata alla luce al neon, che ronzava sopra le loro teste. Più che in un pub, sembrava di essere in una sala d'aspetto che puzzava di birra.

Thorne sapeva perché zia Eileen li aveva portati lì. Suo padre amava i posti fortemente illuminati. In casa accendeva sempre tutte le luci, anche in pieno giorno. Come se cercasse di allontanare le tenebre che oscuravano la sua mente.

«Vi va un altro giro?» chiese Victor.

Eileen scosse la testa, allontanando il bicchiere vuoto. «Se vogliamo avere qualche speranza di mangiare in un posto decente...»

Raccolsero le loro cose: borse, cappotti, cappelli. I tre anziani si avviarono lentamente verso la porta. Thorne restò indietro a controllare che nessuno avesse dimenticato nulla.

Avrebbe voluto trovarsi da un'altra parte. Pensava a Rooker, a Ryan, a due uomini che correvano attraverso un bosco, cercando inutilmente di salvarsi la vita. Pensava a Jessica Clarice e ad Alison Kelly.

Sotto una sedia trovò l'ombrello di Eileen. Lo prese e uscì. In realtà forse quella gita avrebbe fatto bene anche a lui. Andarsene in giro con tre vecchietti un po' strani forse era proprio quello di cui aveva bisogno.

Camminarono verso il lungomare. Thorne strascicava i piedi, guardandosi intorno senza interesse e stando attento a non precedere di troppi passi suo padre e gli altri due.

La primavera era già iniziata da alcuni giorni, ma non aveva ancora preso piede. Era una giornata grigia, di quelle che Thorne associava al mare. Il quadro sarebbe stato completo se Eileen avesse avuto un motivo per aprire l'ombrello. Thorne sapeva che il suo giudizio su Brighton era troppo duro. La cittadina era cara e alla moda, vantava una discreta attività culturale, soprattutto in campo musicale, e si era fatta la reputazione di essere la capitale britannica dei gay. Insomma, non la si poteva certo confondere con il tipico luogo di villeggiatura marina. In ogni caso Thorne preferiva stare lontano da qualunque posto in cui fosse possibile comprare sassi o conchiglie intagliati a titolo di souvenir.

Quasi a confermare i suoi pregiudizi, c'erano diverse famiglie intente a prendere il sole sulla spiaggia sassosa, malgrado il freddo. La pelle d'oca sui corpi era visibile da lontano. Testardaggine, ottimismo, stupidità. Comunque lo si chiamasse, quell'atteggiamento rispecchiava per Thorne il nocciolo del modo di essere inglese.

«Guardate quei matti» disse Eileen, indicandoli. «Con questo tempo!»

Thorne sorrise. Ovviamente, c'erano cose ancora più inglesi.

«Ci saranno dieci o dodici gradi al massimo» continuò Eileen. «Senza contare il fattore vento.»

Il fattore vento. Un concetto ultimamente molto amato dai meteorologi. Chissà da dove l'avevano preso, e se qualcuno lo usava in posti dove il vento era davvero un fattore.

Qui a Spitzbergen ci sono quaranta gradi sotto zero, ma con il fattore vento il freddo diventa così intenso da congelare le palle anche a un cannone. Il padre di Thorne cominciò a blaterare, spiegando quanti anni, quanti operai, quante migliaia di litri di vernice dorata c'erano voluti per completare il Royal Pavilion, e andò avanti su questo tono finché raggiunsero il ristorante. Chiesero un tavolo, si sedettero e ordinarono il menu speciale della domenica. Thorne, che aveva già deciso di offrire il pranzo a tutti, controllò i prezzi. Era una spesa che non l'avrebbe mandato in rovina.

«È bello qui» commentò Victor.

Eileen annuì. «Di solito la domenica cucino io, ma Trevor e sua moglie sono via, Bob è andato a giocare a golf, e ho pensato di prendermi anch'io una mezza giornata di vacanza.»

«Mi dispiace che non avremo l'occasione di salutare Trevor e Bob» disse Thorne. Sapeva bene che il figlio e il marito di Eileen probabilmente non erano andati da nessuna parte. Semplicemente l'idea di un fine settimana con il fratello mezzo matto di Eileen e il suo amico del cuore non faceva gola a nessuno dei due, e avevano pensato bene di sparire dalla circolazione.

«Già» disse Eileen. «Anche loro erano molto dispiaciuti di non riuscire a vedervi.»

Thorne all'improvviso provò molta pena per Eileen. Per tutte le menzogne che era costretta a dire, per quello che doveva sopportare da suo padre, per tutto quello che faceva senza ricevere nulla in cambio. Thorne non ricordava di averla mai ringraziata di nulla. «Sarà per un'altra volta» disse.

Eileen indicò con un cenno del capo il padre di Thorne, il quale fissava il tavolo, picchiettandosi i denti con il dorso della lama di un coltello. «Credo che lui si stia divertendo.»

«Si diverte moltissimo» disse Victor, allungando una mano verso la caraffa dell'acqua.

«Non ti abbiamo ancora ringraziato per averlo portato qui» disse Eileen.

Victor fece un gran sorriso. «Oh, non ce n'è bisogno. Una gita fa bene anche a me.»

Thorne sapeva che entrambi volevano bene a suo padre, che si sacrificavano molto per lui, ma non poteva evitare di irritarsi sentendoli parlare di lui come se non fosse presente.

«Jim può creare molti problemi, a volte.»

Victor rise e versò all'amico un bicchiere d'acqua.

Thorne smise di ascoltare e guardò verso la cucina, per capire se il pranzo era in arrivo. A un tratto sentì la mano di suo padre su un braccio. «Sembra che tu abbia la mente inquieta, figliolo» disse il vecchio.

Thorne annuì. Nella sua mente, le braccia di una ragazza si agitavano mentre lei correva disperata attraverso un campo da gioco, mentre danzava in cucina, mentre cadeva dall'ultimo piano di un parcheggio sopraelevato...

Jim Thorne si chinò a sussurrargli all'orecchio: «A volte penso che tu stia peggio di me» disse. Si toccò una tempia con un dito. «Il mio è un sistema eccellente, Tom. Dovresti provarlo. Anche se ti senti malissimo, se pensare a qualcosa ti fa stare da cani, mezz'ora dopo non ricordi più nulla. Quel pensiero è sparito, cancellato come se non fosse mai esistito. Avere una memoria da pesce rosso ha i suoi vantaggi...»

Thorne fissò il padre senza riuscire a dire nulla. Fu salvato da una cameriera che si materializzò accanto al tavolo con quattro scodelle di zuppa dall'aspetto annacquato.

 

«Quattro e tre, quarantatré...»

Quando Eileen aveva suggerito di andare a giocare a bingo, Thorne avrebbe voluto suicidarsi, e l'entusiasmo di Victor e di suo padre non era riuscito a fargli cambiare umore.

Il bingo, nella scala delle cose che Thorne amava di meno, era a pari merito con il karaoke e l'idea di infilarsi aghi incandescenti negli occhi.

«Due ochette, ventidue...»

Ora che stava giocando, tuttavia, l'eccitazione cominciava a farsi sentire, nonostante i premi (un orsetto di pezza gigante e un martello gonfiabile) non giustificassero il batticuore.

«Solo soletto, il numero sette...»

«Bingo!» gridò una vecchietta a pochi metri da loro. Thorne imprecò sottovoce, proprio come tutti gli altri, e tornò a sollevare i quadratini di plastica blu che coprivano tutti i suoi numeri tranne due.

Suo padre si chinò verso Eileen e disse: «Se hai cento vecchiette, quand'è che novantanove gridano "merda?"».

«Non lo so» disse Eileen.

«Quando l'altra grida "bingo!"»

Thorne aveva già udito quella battuta, ma rise lo stesso.

«Quanti numeri ti mancavano?» gli chiese Eileen.

«Solo due.»

«Immagina come dev'essere in una sala di quelle grandi, con in palio decine di migliaia di sterline.»

Thorne pensò che avrebbe fatto meglio a non avventurarsi mai in uno di quei posti. Se l'eccitazione saliva in proporzione all'aumentare della posta in gioco, avrebbe rischiato un infarto.

Il posto dove si trovavano, una sala accanto al molo di Brighton, non poteva essere molto diverso dalle sale sparse in tutta Londra. Di solito si trattava di ex cinema, ma alcune erano ex sale da ballo vittoriane, e mantenevano un pizzico di fascino. Thorne e gli altri erano seduti intorno a un podio, ciascuno con le proprie cartelle di plastica con sopra i numeri, davanti ad apposite fessure in cui infilare le monete. Non c'erano in palio premi in denaro.

«Un'altra partita tra qualche minuto» l'annunciatore disse al microfono. Era un uomo magro come un chiodo con una calvizie incipiente. Il microfono che teneva in mano gli copriva la bocca, e un paio di enormi occhiali da sole facevano il resto. In quel locale malandato, era da ammirare la sua decisione di vestirsi in modo formale, con camicia bianca e cravatta a farfalla.

Thorne infilò una moneta nella fessura per la prossima partita.

«Accomodatevi, signore e signori, restano solo pochi posti liberi...»

Thorne sì guardò intorno. C'erano meno di una decina di persone in sala.

«Attenzione al primo numero...»

Thorne si chinò in avanti, le dita pronte a coprire i numeri. Accanto a lui c'era Eileen, e accanto a Eileen suo padre rideva ancora della sua battuta sulle vecchiette che gridano "merda". Eileen si chinò a bisbigliargli qualcosa, poi inserì una moneta nella fessura per lui.

«Cinque e sei, cinquantasei...»

Il padre di Thorne cominciò a ridere forte. La donna che aveva vinto la partita precedente lo zittì e scosse la testa. Allo stesso tempo Eileen strinse una mano di Thorne, in cerca di aiuto.

«Ventisei, stronzo che sei!» gridò suo padre all'improvviso.

Victor rise, Eileen impallidì. Thorne allungò una mano verso il padre. «Papà...»

«Quarantotto, culo rotto!»

Thorne si alzò e si avvicinò al padre, mentre mormorii di disapprovazione si alzavano dal pubblico. Lo sguardo di eccitazione folle negli occhi del vecchio gli fece mancare il respiro.

«Settantasette, mostra le tette!» gridò ancora Jim Thorne.

L'annunciatore mise giù il microfono producendo uno stridio fastidioso, e Thorne restò a bocca aperta vedendo che era senza denti e aveva almeno vent'anni di più di quelli che gli aveva dato all'inizio. Con la coda dell'occhio vide avvicinarsi un uomo vestito di scuro con un walkie-talkie in mano. Sapeva che avrebbe dovuto restare serio e prepararsi a fornire scuse e spiegazioni, ma non riusciva a smettere di ridere.

 

Il caffè che aveva comprato alla stazione di Brighton era diventato freddo. Thorne fissava il buio fuori dal finestrino, di ritorno a Londra. Appoggiò la testa allo schienale e chiuse gli occhi. Chissà perché quando era a letto non sentiva mai quella sonnolenza invincibile.

In quel momento Victor e suo padre quasi certamente ridevano ancora dell'episodio accaduto nella sala di bingo. Thorne non era certo che il padre in quei momenti sapesse quello che faceva. Perciò, era davvero possibile che potesse ricordare quegli eventi e riderne? Sperava di sì. Almeno, sperava che li ricordasse finché la sua "memoria da pesce rosso" non li avrebbe cancellati del tutto...

Thorne sbadigliò a bocca aperta. Si accorse di una donna che lo fissava e le sorrise. Lei gli restituì il sorriso.

Aveva sentito tanti racconti sulle difficoltà di essere genitori, da veterani quali Russell Brigstocke e Yvonne Kitson, e da reclute come Dave Holland, che a volte arrivava al lavoro con il bavero della giacca macchiato di latte. All'improvviso gli sembrò che tutto quello che gli avevano detto si applicasse alla sua situazione presente, in cui suo padre aveva bisogno di essere controllato come un bambino piccolo.

Nessuno può prepararti a quello che ti troverai ad affrontare.

Non finisci mai di imparare.

Non c'è un modo giusto e un modo sbagliato.

E Thorne sapeva, dalle conversazioni che aveva ascoltato, che a volte era necessario essere duri, anche se questo poi ti faceva star male. Altre volte, anche se non ti piaceva quello che tuo figlio stava facendo, o l'effetto che il suo comportamento aveva su altri bambini, era importante capire che si stava solo divertendo. Thorne ripensò all'espressione di suo padre mentre gridava oscenità...

A un tratto i suoi pensieri cambiarono direzione, e si chiese se fosse troppo tardi per chiamare Alison Kelly. Probabilmente sì, ma tirò fuori il cellulare e la chiamò ugualmente.

«Ciao, sono Tom.»

«Ciao.»

«Scusa se ti chiamo a quest'ora. Come stai?»

«Sono molto stanca.»

«Anch'io. È stata una notte faticosa.»

Lei rise. «Già.»

Thorne la rivide nuda. La rivide mentre piangeva, e poi, voltata verso il muro, mentre cercava di assimilare le sue parole. «Che cosa pensi di quello che ti ho detto?»

Ci fu un lungo silenzio. Thorne fissò il display del telefonino, credendo di aver perso il campo.

«Sono felice che tu me l'abbia detto» disse lei a un tratto. «Ti sono... grata.»

«Non avrei dovuto dirti nulla, ma ti ho visto così sconvolta...»

«Mi hai detto la verità. Ne avevo bisogno.»

Thorne notò che la donna di fronte a lui non perdeva una parola, e abbassò la voce. «Alcune verità sono difficili da accettare.»

Ci fu un altro silenzio.

«Alison...?»

«Sono una donna adulta» disse lei. Poi rise senza allegria. «Ho dovuto diventarlo in fretta.»

«Ti andrebbe di uscire di nuovo insieme?»

«Non voglio che tu mi compatisca...»

«No, non è questo. Sul serio...»

«Aspettiamo qualche giorno» disse lei. «Dopo vedremo.»

Per via del buio fuori, Thorne ci mise qualche secondo a capire che erano entrati in un tunnel. Controllò il display e vide che stavolta aveva davvero perso il segnale. Fissò il vuoto per alcuni secondi, quindi allungò la mano verso un giornale abbandonato sul sedile accanto. Lo aprì e si mise a leggere.

Prima di aver finito l'articolo dormiva già.

 

CAPITOLO 19

 

La cameriera sistemò al centro del tavolo un vassoio di biscotti disposti in modo artistico. Ritirò il vassoio vuoto e si allontanò, non prima di aver rivolto un'occhiata perplessa al gruppo di persone che occupava la sala conferenze.

Era davvero un'assemblea curiosa.

Il sovrintendente capo Trevor Jesmond si schiarì la voce e attese che si facesse silenzio. «Vogliamo cominciare, signore e signori?» Cominciò a fare le presentazioni, mentre gli invitati si versavano tè e caffè.

Intorno al lungo tavolo rettangolare erano riunite sette persone. A capotavola c'era Jesmond, con una poliziotta in uniforme che parlava turco alla sua destra. Più giù c'era Memet Zarif, accompagnato da un turco anziano, descritto come un rispettato leader della comunità.

Dall'altro lato erano seduti Stephen Ryan, il figlio di Billy, e una donna elegante di nome Helen Brimson, che Jesmond presentò come la rappresentante legale della Ryan Properties. L'ultima persona a essere presentata fu un uomo robusto in giacca di pelle, con una penna in mano e un fascio di fogli davanti a sé.

«L'ispettore Thorne prenderà appunti e registrerà la durata della riunione...»

«Immagino,» lo interruppe Helen Brimson «che questa procedura sarà soggetta a tutte le restrizioni del caso.»

Jesmond si disse d'accordo, e continuò ad annuire mentre la donna proseguiva: «Vorrei una conferma ufficiale che gli appunti presi serviranno solo per uso interno della polizia, e che non saranno mai resi pubblici in tribunale, nel corso di eventuali azioni legali».

Thorne cominciò a scrivere, sperando che la parte delle scemenze finisse presto.

«Questo incontro rientra in un processo di consultazione tra comunità» disse Jesmond, e allargò le braccia. «Sono grato a tutti i presenti per essere qui stamattina...»

"Qui" era un hotel poco distante da Maidenhead, anonimo e uguale a decine di altri che sorgevano intorno alla M25. Facile da raggiungere e lontano dalla luce dei riflettori.

Finalmente si realizzava l'idea di Tughan di riunire i diretti interessati intorno a un tavolo, per cercare di porre fine agli omicidi.

Memet Zarif mise una mano sulla spalla del "rispettato leader della comunità". Erano entrambi ben vestiti e sorridenti. «Il nostro amico qui presente ha chiesto a me e ai miei fratelli,» disse Memet «di aiutare la polizia. In realtà credo che lo stiamo già facendo, ma se ci fosse ancora qualcosa che è in nostro potere fare per contribuire alle indagini, non avete che da chiedere.»

Jesmond annuì e Thorne prese appunti. Era evidente che le scemenze non sarebbero finite tanto presto.

«Lo stesso vale per me» disse Stephen Ryan. Indossava una giacca scamosciata con una camicia aperta e una catena d'oro appesa al collo. «E vale anche per mio padre e per chiunque sia collegato alla Ryan Properties. Una importante riunione d'affari ha impedito a mio padre di essere qui oggi, ma mi ha chiesto di esprimere a tutti voi il suo disgusto per i recenti omicidi...»

Thorne faceva fatica a credere alle sue orecchie. Pensò ad Alison Kelly. Era passata più di una settimana dalla loro conversazione al telefono, e non avevano più avuto contatti.

«...e il suo desiderio di contribuire a fermare questo spargimento di sangue.» Ryan guardò Thorne. «Non scrive?»

Thorne pensò che gli avrebbe volentieri scritto qualcosa sulla faccia. Non disse nulla e annotò: Ryan, disgusto, desiderio.

Jesmond spezzò un biscotto, stando attento a far cadere le briciole nel piatto. «Queste sono proprio le parole che noi speravamo di udire. Ma c'è bisogno di agire,se vogliamo cambiare la situazione. Questo spargimento di sangue a cui lei si riferisce deve finire davvero.»

«Naturalmente» disse Zarif.

Ryan alzò le mani in un gesto che significava: Non c'è bisogno di dirlo.

Jesmond si mise gli occhiali, prese un foglio e cominciò a leggere una lista di nomi. «Anthony Wright. John Gildea. Sean Anderson. Michael Clayton. Muslum Izzigil. Hanya Izzigil. Sergente Marcus Moloney.» Jesmond fece una pausa, guardandosi intorno. «Più recentemente Francis Cullen, camionista, e due corpi non ancora identificati trovati accanto a lui.»

Thorne guardò prima Ryan, poi Zarif. Entrambi avevano la faccia seria, come si conveniva dopo la lettura di un elenco di vittime.

«Questi sono gli omicidi di cui siamo a conoscenza,» disse Jesmond «e sui quali stiamo indagando. Tutti, in un modo o nell'altro, sono collegati alle vostre famiglie o ai vostri affari.»

La legale di Ryan apri la bocca per intervenire, ma Jesmond la fermò con un gesto. «Mi correggo: hanno colpito le vostre famiglie o i vostri affari. Signorina Brimson?»

«Ho consigliato al mio cliente di non rispondere a nessuna eventuale domanda riguardante casi specifici.»

«E chi gli ha fatto domande specifiche?» chiese Thorne.

Ricevette un sorriso freddo. «Ho detto eventuale domanda.»

«Allora sottolineo questa parola nei miei appunti.»

Zarif si versò una seconda tazza di caffè. «È un peccato che sia questo il suo atteggiamento, signor Ryan. È proprio il rifiuto di parlare di queste cose che rende possibili omicidi come questi.»

Il vecchio accanto a lui annuì vigorosamente.

«Ci sono persone nella mia comunità che hanno paura di parlare» continuò Zarif guardando Jesmond. «Ma credevamo che gli appartenenti al... circolo del signor Ryan avessero un atteggiamento più coraggioso.»

Zarif stava premendo i bottoni giusti. La collera di Stephen Ryan era controllata ma evidente.

Per dieci lunghi secondi nessuno parlò. Il silenzio era interrotto solo dal rumore del traffico, in strada, e dal ronzio della ventola di un calorifero.

«Questi omicidi, indipendentemente da chi siano le vittime, sono inaccettabili» disse alla fine Jesmond. «Danneggiano persone di varie comunità, e danneggiano anche gli affari di tutti.»

Thorne prese appunti. E soprattutto danneggiano le tue possibilità di ricevere una promozione.

Ryan fece un sorriso tirato. «A volte sono la stessa cosa» disse.

«Prego?» disse Jesmond, confuso.

«Le persone e gli affari.» Ryan fissò Zarif dall'altra parte del tavolo. «A volte gli affari sono le persone. Capisce cosa intendo dire?»

Ora toccava a Zarif controllare la rabbia. Sapeva perfettamente che Ryan si riferiva all'episodio del TIR. Mormorò qualcosa in turco al vecchio seduto accanto a lui. Appena finì di parlare la poliziotta che parlava turco disse: «Il signor Zarif ha detto che alcuni idioti dovrebbero pensarci due volte prima di aprire bocca».

Thorne spostò lo sguardo da Ryan a Zarif, nella vana speranza che si lanciassero l'uno contro l'altro. Avanti, pensava. Finiamola qui e ora...

Jesmond ringraziò l'agente. Thorne non riusciva a ricordare il suo nome. Sapeva che era lì per notare qualunque dichiarazione mcriminante, anche se in seguito non avrebbero comunque potuto usarla. Del resto, Thorne non credeva che ci sarebbe stata alcuna dichiarazione mcriminante. Tutta quella riunione sembrava girare intorno soprattutto a quello che non veniva detto.

«Dobbiamo unire i nostri sforzi» disse Jesmond, quando l'atmosfera si fu calmata.

«Non ha senso continuare questa riunione,» ribatté Helen Brimson «se il mio cliente deve starsene seduto qui a subire degli insulti.»

Thorne la guardò. Il braccio della donna sfiorava quello di Ryan. Forse andavano a letto insieme. Certo, lei stava solo facendo il suo lavoro, ma poteva anche esserci un altro motivo per la sua difesa così decisa di quel gangster.

«Il signor Ryan preferisce scambiare il posto con me, e starsene qui a subire degli insulti?»

Stephen Ryan non alzò neppure lo sguardo. «Vaffanculo, Thorne.»

Thorne rivolse a Jesmond uno sguardo innocente. «Questo devo metterlo a verbale?»

«Innanzitutto voglio che siano chiare due cose» disse Jesmond. «La prima è che noi non abbiamo intenzione di ridurre gli sforzi in nessuna delle indagini relative agli omicidi che ho menzionato.»

«In nessuna» ripeté Thorne.

Jesmond annuì e continuò. «Forse alcuni di voi lo sanno già, ma lo dico per gli altri: l'ispettore Thorne è uno dei funzionari che si occupano attivamente di tali indagini.»

Thorne fu tentato di alzarsi e fare un inchino.

«La seconda cosa,» disse Jesmond, togliendosi gli occhiali e infilandoli nel taschino della giacca «è un appello diretto: vorremmo che queste consultazioni continuassero, per il bene di tutti. Vi parlo a nome del capo della polizia. Vi chiediamo di usare la vostra influenza come uomini d'affari e come membri importanti delle vostre comunità, per evitare ulteriori spargimenti di sangue.»

Thorne muoveva la penna alla massima velocità possibile, per stare dietro al discorso di Jesmond. Aveva caldo e stava venendogli un leggero mal di testa.

Un quarto d'ora più tardi la cameriera bussò ed entrò, chiedendo se desideravano altri biscotti, ma ormai la riunione era alla fine. Ryan e Zarif uscirono a qualche minuto di distanza l'uno dall'altro, ciascuno immerso in un'animata discussione con il proprio consigliere.

Jesmond raccolse le sue carte. «Come ti sembra che sia andata, Tom?» Non aspettò la risposta, immaginando che non sarebbe stata di suo gradimento, e continuò: «Lo so anch'io che questi incontri sono difficili. Speriamo solo di ricavarne qualcosa».

Thorne era sicuro di averne ricavato un crampo alla mano. A parte quello, dubitava che ci sarebbero stati altri risultati.

 

Metodica come sempre, Carol Chamberlain spingeva il carrello su e giù per le corsie, senza saltarne neppure una. Superò un piccolo ingorgo davanti alle casse e si diresse verso la sezione dei detersivi e della carta igienica.

Jack si materializzò accanto al carrello e vi lasciò cadere dentro una bracciata di acquisti. «Abbiamo bisogno di cibo per il cane?» chiese.

Carol annuì, e il marito scomparve dietro l'angolo della corsia. Lei continuò la sua ispezione metodica degli scaffali, prendendo cose, lasciandole cadere nel carrello e andando avanti. Prendi, lascia, spingi. Ma la sua mente era lontana mille miglia.

Quando inchioderemo Ryan, ci dirà chi è stato, vent'anni fa, a dare fuoco a Jessica Clarke. Ci darà un nome...

Thorne le aveva promesso che avrebbe trovato il responsabile di quel delitto avvenuto tanto tempo prima. Avrebbe rimediato all'errore.

Da quella promessa erano passate più di due settimane, e non si erano più visti. Non si erano neppure sentiti al telefono. Naturalmente Chamberlain sapeva che Thorne aveva di meglio da fare che passare il tempo a tenerla aggiornata sugli sviluppi del caso.

Prendi, lascia, spingi...

Il caso insoluto del 1993 di cui si stava occupando, quello dell'allibratore assassinato, era arrivato a un punto morto. Non c'era nulla in quel caso che le facesse accelerare le palpitazioni. Nulla che la distraesse.

Naturalmente, Jack preferiva così. Gli piaceva la calma a fine giornata, ed era contento di vedere che in quei giorni nulla e nessuno aveva richiesto la presenza di Carol in qualche posto lontano da casa. Sapeva che Jack si comportava così solo perché l'amava. Anche lei lo amava, e si sarebbe sentita persa senza di lui. Jack era un'ancora di salvezza nella sua vita, ma in quel periodo, da quando il caso di Jessica Clarke era risalito a galla, Chamberlain sentiva che quell'ancora la stava trascinando a fondo.

Voleva che tutto finisse presto.

Prendi, lascia, spingi...

Aveva riposto tutte le sue speranze in Tom Thorne. Anche perché non aveva altra scelta. Carol Chamberlain gli voleva bene e lo stimava, tuttavia non poteva sopportare il fatto che la faccenda fosse totalmente fuori dal suo controllo.

Odiava sentirsi messa da parte.

Provò il desiderio di riempire il carrello fino all'orlo di bottiglie e altra roba pesante, per poi lanciarsi alla carica lungo la corsia, verso le vetrate, mentre le famiglie fuggivano spaventate al suo passaggio e le guardie giurate gridavano nelle loro radio...

Jack riapparve dietro l'angolo e si avvicinò a passo svelto, lasciando cadere nel carrello le scatole di cibo per cani che stringeva al petto. Carol lo prese sottobraccio e si avviarono insieme verso la successiva corsia.

 

23 agosto 1986

Il nuovo album degli Smiths è bellissimo. Spesso, quando metto Bigmouth Strikes Again, con i versi su Giovanna d'Arco, papà si affaccia alla porta e ride.

Ali ha un ragazzo. Lo ha conosciuto in un club. Ieri me lo ha presentato. Sembra un tipo simpatico, ma dopo avermi salutata come se fosse tutto normale, ha guardato Ali per farle notare come era stato "sensibile".

Non so se hanno già "fatto qualcosa".

C'è anche un altro ragazzo per il quale Ali dice di avere una cotta. Del resto, lei ha una cotta per un ragazzo diverso ogni settimana. Questo è più grande di lei di parecchi anni, e lavorava per suo padre. Il che significa che avrà un soprannome tipo "Ron il macellaio", o qualcosa del genere. Ali diceva spesso che le sarebbe piaciuto provarci con uno degli amici di suo padre. Flirtare con loro, e dire cose tipo: «Quella sporgenza nei pantaloni è una pistola, o sei solo felice di vedermi? Ah, è una pistola...».

Nell'album c'è anche una canzone che si chiama I Know It's Over, so che è finita.

Oggi l'ascoltavo con le cuffie, e a un certo punto c'è un pezzo dove Morissey dice che sente come del fango cadergli sulla testa. È cosi che ci si sente, dice, quando una storia finisce, quando la persona con cui si sta ci lascia. Io ho provato a immaginarmi in quella situazione. Come se fossi stata con qualcuno e lui mi avesse lasciata. Avevo il volume al massimo e gli occhi chiusi, e per un po' mi sono sentita molto romantica.

Ma a un tratto ho cominciato a sentirmi solo stupida e piena di rabbia, e non sopportavo più di sentire quelle parole. Ora, quando ascolto il disco, salto sempre quel pezzo. Le parole e la melodia mi fanno venire voglia di piangere, ma non si tratta di un sentimento reale. È un'emozione falsa. Credevo che essere compatita dagli altri fosse la cosa peggiore, ma ho capito che il peggio è quando comincio a compatirmi da sola.

La pura verità è che io non avrò nessuna storia con nessun ragazzo, a meno che non si tratti di un'altra "faccia fusa" come me. Magari ci incontreremo nella sala d'attesa di un chirurgo plastico...

Ma non succederà. Il fatto che io abbia questo aspetto non significa che debbano piacermi quelli come me.

Essere lasciata non mi renderebbe triste. Mi farebbe venire voglia di uccidere quel bastardo, per essere stato così stronzo, così vigliacco, così testa di cazzo.

Comunque non voglio stare con nessuno.

Rileggendo quello che ho scritto, mi sembra tutto patetico. Sembra che voglia stare da sola perché mi compatisco. Non è così, ma forse non c'è un altro modo di scriverlo.

MOMENTO DI MERDA DELLA GIORNATA

Quando ho deciso di non pensare più a tutto questo perché è troppo stupido.

MOMENTO MAGICO DELLA GIORNATA

Idem.

 

CAPITOLO 20

 

«Parlami ancora dell'incontro con Ryan. Ripeti quello che ti ha detto quella notte nella foresta di Epping.»

Rooker era circondato da una nuvola di fumo, attraverso la quale il suo sospiro scavava tunnel di noia. «Non possiamo parlare d'altro?» chiese. «O crede che all'improvviso ricorderò qualcosa che non ho già detto dieci volte?»

Thorne fissò il nastro che girava nella doppia piastra di registrazione. «Non lo so...»

«Sono passati vent'anni. Non crede che abbia avuto abbastanza tempo per ricordare?»

«O per dimenticare.»

«Oh, merda...»

Era passato un mese da quando le massime autorità avevano accettato l'offerta di Gordon Rooker di testimoniare contro Billy Ryan. Il giorno prima, quando Thorne era rientrato in centrale dopo la tavola rotonda a Maidenhead, Tughan gli aveva detto che Ryan sarebbe stato incriminato entro una settimana.

Stavano costruendo l'accusa da diversi fronti. Erano stati rintracciati e interrogati molti personaggi che nel 1984 erano in contatto con Ryan e Rooker. Alcuni erano ancora attivi, altri si erano ritirati in campagna, e altri ancora si erano trasferiti in paesi con un clima migliore e una politica fiscale più attraente. Alcuni avevano parlato, ma non abbastanza da tranquillizzare Tughan e la sua squadra.

La mafia la chiamava omertà, una parola dal suono piacevole che la faceva sembrare degna e persino onorevole, ma non c'era onore nella vita di quegli uomini che vivevano nascosti nelle loro ville e se la facevano addosso dalla paura. Thorne avrebbe voluto andare personalmente a trovare alcuni di quei fossili della malavita, a Braintree o a Benidorm. Avrebbe voluto prenderli a schiaffi sulle guance abbronzate dalle lampade UVA e mettere loro davanti agli occhi una foto di Jessica Clarke.

«Come ho già ripetuto molte volte,» disse Rooker «ricevetti la telefonata di Harry Litde e andai all'appuntamento con Ryan nella foresta di Epping, su una strada sterrata vicino a Loughton...»

La testimonianza di Rooker era cruciale per il processo, ma visto che proveniva da un criminale, sarebbe stato facile screditarla.

Perciò, loro dovevano essere assolutamente sicuri che fosse priva di punti deboli.

«Salii sulla sua macchina...»

«Che tipo di macchina era?»

Rooker alzò gli occhi a fissare Thorne come se fosse ammattito. «Ma come cazzo faccio a saperlo? Era buio, e stiamo parlando di una notte di venti anni fa.»

Thorne sospirò. «I particolari sono importanti, Gordon. Gli avvocati di Ryan ti faranno a pezzi, se solo dai loro una possibilità. Se non riesci a ricordare la marca dell'auto, forse non ricordi esattamente neppure quello che disse Ryan. Forse eri confuso, e hai creduto che ti stesse chiedendo di commettere un delitto, ma in realtà non era così. Mi segui?»

«Forse era una Mercedes. Una di quelle vecchie, con il radiatore grande.»

«Capisci ora? Questo è il motivo per cui dobbiamo andare avanti.»

Rooker annuì, riluttante. «Non ero affatto confuso» disse.

La porta si aprì ed entrò una guardia con del tè per Thorne e una bibita gassata per Rooker. Thorne ringraziò, la guardia uscì e loro presero i bicchieri.

«È calda» si lamentò Rooker.

«In macchina con Ryan, lui ti fece subito la sua proposta, o prima si parlò di altre cose?»

«Lui non era il tipo da parlare del tempo. Ci fu appena qualche accenno a delle conoscenze comuni...»

«Harry Little?»

«Sì, Harry e altri. Poi lui venne al dunque.»

«E ti chiese se eri disposto a uccidere Alison, la figlia di Kevin Kelly.»

Rooker sbuffò e si preparò a ripetere tutte le risposte ancora una volta. «Sì.»

«E in cambio ti offrì del denaro.»

«Sì.»

«Quanto? Quale cifra ti offrì per uccidere Alison KeUy?»

Rooker lo fissò, con uno sguardo carico di tensione. Thorne si rese conto, con un senso di shock, che non gli aveva mai posto prima quella domanda.

«Credo si trattasse di circa dodicimila sterline.»

«Credi? Circa?»

«Va bene, erano dodicimila sterline.»

Aggiunse un commento su quello che valevano i soldi all'epoca, ma Thorne aveva smesso di ascoltarlo. Ora sapeva il valore che era stato attribuito alla vita di Alison Kelly.

Chissà se glielo avrebbe detto la notte in cui le aveva sussurrato all'orecchio la verità. Si pentì nuovamente di averlo fatto...

«Ryan ti disse il motivo dell'omicidio?»

«Voleva colpire Kevin Kelly, no?» rispose Rooker. «Voleva che Kelly assumesse il controllo delle altre organizzazioni. Poi lui avrebbe preso il suo posto.»

«Non mi riferivo a questo. Ti disse come mai aveva pensato di raggiungere il suo scopo facendo uccidere una bambina? Era un atto davvero estremo. Fuori dall'ordinario, come hai detto tu stesso.»

«Esatto. Per questo non accettai. In quanto al motivo di Ryan, non ne ho idea. Non ho mai chiesto a nessuno il perché dei lavori che mi affidava. Non era compito mio.»

Thorne bevve un sorso di tè. Stava per dire qualcosa, ma Rooker lo precedette.

«Quante altre volte dovremo ripetere questa storia?»

«Questa probabilmente è l'ultima» rispose Thorne. «Almeno per me. Forse ti toccherà ripetere tutto ad altri poliziotti...»

«Mi dica cosa succederà dopo.»

«Dopo il processo?»

«Esatto. Cosa ne sarà di me?»

Stavolta toccò a Thorne sospirare. Questo era un punto su cui Rooker sembrava voler tornare all'infinito.

«Ti ho già detto,» disse Thorne «che non lo so. E che non avrò nessun potere decisionale in merito. C'è un dipartimento speciale che si occupa dei casi come il tuo.»

«Ma deve almeno avere un'idea, no? Probabilmente mi manderanno molto lontano da qui, con una nuova identità e tutto il resto.»

«Ci sono diversi... livelli di protezione per i testimoni. E penso di poter dire che tu dovresti essere al livello più alto. Almeno all'inizio...»

Rooker sembrò contento della risposta. «E potrò scegliere io il nome?» chiese.

«Cosa?»

«Il mio nome. La mia nuova identità.»

«Hai in mente qualcosa di speciale, eh?»

Rooker rise, e infilò le dita nella tabacchiera. «No, non è questo. Solo non vorrei ritrovarmi con un nome da deficiente, quando tutto sarà finito.»

Thorne sentì una stretta al petto. La sbruffoneria che Rooker aveva mostrato il primo giorno sembrava tornata.

Rooker gli parlava come se fossero amici, e questo gli faceva venire voglia di stringergli il collo.

Thorne guardò l'orologio e si chinò verso il registratore. «Il colloquio termina alle quattordici e trentacinque» disse. Poi schiacciò stop.

«Allora abbiamo finito?» chiese Rooker.

Thorne accennò con il mento al registratore. «Abbiamo finito con questo»disse. Avvicinò il viso a quello di Rooker. «Cosa provavi, Gordon?»

«Come, scusi...?»

«Quando uccidevi qualcuno per denaro. Quando concludevi un contratto. Voglio che tu mi dica cosa provavi.»

Rooker continuò a rollare la sigaretta, ma lentamente, e con una destrezza minore nelle dita ingiallite. «Cosa c'entra ora questa domanda?» disse alla fine.

«Sappiamo che il perché non era compito tuo. Allora cosa ti spingeva? Il tuo lavoro ti procurava soddisfazione? Orgoglio?»

Rooker non disse nulla.

«Ti divertivi a farlo?»

Rooker alzò gli occhi e scosse la testa, deciso. «No. C'era la soddisfazione di un lavoro ben fatto, nient'altro. E i soldi. Quando comincia a piacerti quello che fai, sei fottuto.»

Thorne non era d'accordo. A X-Man definitivamente piaceva ciò che faceva, ma non aveva ancora commesso nessun errore.

«E quindi, che cosa succede, in quel momento?» insisté Thorne. «Spegni il cervello e vai con il pilota automatico?»

«Sei concentrato. Non pensi a nulla... È come se la mente fosse immersa in una specie di foschia, in mezzo alla quale, proprio al centro, c'è un punto di luce, chiaro e freddo. Ti rilassi, stai calmo e ti muovi verso quel punto: è il tuo obiettivo, e non ti lasci distrarre da nulla.»

«Per "distrazioni" intendi cose come la pietà o il rimorso?»

«Lei mi ha fatto una domanda e io le sto rispondendo» disse Rooker. «Il lavoro è così...»

«Ne parli ancora al presente.»

Rooker mise la sigaretta già rollata nella tabacchiera e chiuse il coperchio. «È una cosa con cui devo ancora convivere.»

«Sono molti quelli che ci convivono» disse Thorne.

Phil Hendricks in quel periodo dava lezioni al Royal Free. Thorne l'aveva chiamato e si erano accordati per vedersi dopo il lavoro. Avevano cenato in un ristorante cinese non lontano dall'ospedale, poi erano entrati in un pub e si erano fatti due pinte ciascuno in meno di quindici minuti. Solo allora avevano cominciato a rilassarsi.

«Non lasciarti irritare da quello che dice Rooker» disse Hendricks. «Lui cerca di farlo sembrare un esercizio zen, ma la verità pura e semplice è che uccideva delle persone.»

«Lo so, il fatto è che oggi non ero dell'umore giusto per sopportarlo.» Thorne sorrise e sollevò il bicchiere. «Sai, una di quelle giornate...»

Una di quelle giornate che arrivavano circa una volta al mese. Momenti in cui Thorne si fermava un attimo, osservava quello che stava facendo, vedeva le persone con cui aveva a che fare. Era come se, dopo essere andato avanti in automatico per settimane, improvvisamente notasse la puzza e l'oscurità. Come se, svegliandosi dopo un brutto sogno, scoprisse che la vita reale era molto peggio dell'incubo.

La sua vita, in un certo senso, non era molto diversa da quella di suo padre. C'erano momenti in cui diceva, agli assassini e alle vittime, cose che potevano sembrare bizzarre come le trovate del padre.

«Otto e sette, culo e tette» disse Thorne, facendo un largo sorriso a Hendricks.

Quel tipo di battute ormai erano ricorrenti tra loro, da quando Thorne aveva raccontato all'amico l'episodio di Brighton. Se le dicevano al telefono, oppure via SMS.

Hendricks si alzò per andare a prendere altre due birre. Si toccò l'inguine e disse: «Uno, due, tre, il mio cazzo fa per te».

Il locale era affollato, ma nessuno si voltò a guardarlo. I clienti dovevano essere quasi tutti medici e infermieri dell'ospedale, anche loro occupati a far scendere la tensione dopo una dura giornata di lavoro.

Thorne stava ancora cercando un'altra battuta oscena in rima, quando Hendricks tornò con le birre. «Sai che dopo la morte il corpo perde peso?» disse.

«Interessante.»

«Non fare lo scemo, e ascolta. Da morto puoi perdere da meno di un grammo in su. La media è circa sedici grammi.» Hendricks scosse la testa e bevve un sorso di lager. «Gli studenti a cui l'ho detto oggi sembravano interessati proprio come te.»

«Allora continua pure. Qual è la causa di questa perdita di peso?»

«Nessuno lo sa per certo. Forse l'aria contenuta nei polmoni. Ma la chicca è un'altra.»

«Ah, sapevo che c'era una chicca.»

«In passato si pensava che quello fosse il peso dell'anima.»

La frase risuonò nella testa di Thorne, che si fece più attento, aspettando il seguito.

«Nel diciottesimo secolo furono costruite bilance di precisione destinate a pesare i malati terminali negli attimi prima e dopo la morte.» Hendricks fece una pausa a effetto, poi riprese: «All'epoca era considerato un problema molto importante, quello di misurare il peso dell'anima appena lasciava il corpo. Esperimenti del genere furono ripresi in America ai primi del Novecento, e in Germania ne è stato effettuato uno appena venticinque anni fa».

Thorne era senza parole. Finché si trattava del diciottesimo secolo, era facile liquidare la cosa come una follia del passato. Ma venticinque anni prima?

«Non hai detto che si tratta solo dell'aria contenuta nei polmoni?»

«Ho detto che nessuno lo sa per certo. La teoria dell'anima ha parecchi sostenitori.»

Thorne sorrise sopra la schiuma della birra. «Per caso avevi già bevuto, quando ci siamo visti?»

Restarono in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri. Thorne cominciava a sentirsi la testa leggera. C'erano immagini che si formavano e si dissolvevano nella sua mente. Cadaveri e bilance. Uomini in parrucca e palandrane che osservavano gli ultimi spasmi di esseri umani morenti per poi annotare qualcosa in un quaderno e alzare gli occhi al cielo...

Thorne guardò Hendricks. Dal sorriso che gli era apparso sulle labbra, capì che stava per dire un'altra battuta oscena in stile bingo.

 

Hampstead Heath era solo a un paio di fermate da Kentish Town West. Si stavano dirigendo insieme verso la stazione quando squillò il cellulare di Thorne.

«Tom...?»

Thorne guardò Hendricks e sollevò un sopracciglio. «Ciao Carol. Non è un po' tardi per te?»

«Sì, ma non riuscivo a dormire.»

«Non hai ricevuto altre telefonate, vero?»

«No, non si tratta di questo...»

Passò un enorme camion con rimorchio, e Thorne non riuscì a sentire le parole successive. Poi ci fu un silenzio, in cui ciascuno dei due sembrava aspettare che l'altro dicesse qualcosa.

«Ho chiamato solo per sapere come stai.»

«Sto bene, Carol...»

«Mi fa piacere.»

«E sta andando bene anche il resto. Il caso è rimasto più o meno allo stesso punto in cui era l'ultima volta che abbiamo parlato, ma tra un po' dovremmo vedere qualche risultato.» Capì all'improvviso che quello era il vero motivo della telefonata. «Scusami, avevo intenzione di chiamarti, ma...»

«Non preoccuparti, lo so che sei occupato. Volevo solo sentirti...»

«Come sta Jack?»

«Bene, grazie. Ascolta, Tom...»

Hendricks indicò l'orologio. L'ultimo treno sarebbe arrivato tra due minuti. Thorne accelerò il passo ed entrarono nella stazione. «Perché non ci vediamo, la prossima settimana?» disse. «Vieni a Londra, ti porto fuori a pranzo e lo metto in conto spese.»

«Sembra interessante. Allora ti chiamo la prossima settimana.»

«Bene, ti saluta anche Phil...»

La linea era già caduta.

Al binario, mentre aspettavano seduti su una panchina, osservando dei ragazzi in attesa sul binario di fronte, Thorne chiese: «Sedici grammi, hai detto?».

Hendricks sembrò non capire subito a cosa si riferiva, poi annuì. «Già...»

«È uguale per uomini e donne?»

«Non proprio. La media di sedici grammi vale per un uomo di corporatura media. Una donna di corporatura media dovrebbe perdere intorno ai dodici grammi.»

"Quindi per un bambino sarebbe stato ancora meno" pensò Thorne. Otto o nove grammi. Però non aveva senso. L'anima di un bambino avrebbe dovuto pesare di più. È solo quando cresciamo che diventiamo corrotti e senz'anima...

Otto o nove grammi.

Il treno arrivò con uno strepito di freni. Al di sopra del rumore, Thorne disse, più a se stesso che a Hendricks: «Una manciata di riso. No, meno... Solo alcuni chicchi».

 

CAPITOLO 21

 

3 novembre 1986

Se qualcuno fa un altro commento idiota sui miei sedici anni, dovrò prendere misure drastiche. Le occhiate, le risatine, alludono al fatto che dopo aver compiuto sedici anni sarà legale fare sesso con me. Vorrei rispondere: «Grazie, da sola non ci ero arrivata. Adesso ho solo bisogno di qualcuno che sia abbastanza disperato e di un sacco da infilarmi sulla testa».

Perché la gente presume che io sia "interessata"?

Perché tutti presumono "sempre"?

Sono giorni che penso a come dire a M & P che preferirei morire, piuttosto che andare al party che loro mi hanno organizzato per domani. Il primo compleanno dopo la guarigione, dopo l'ultima operazione. So che lo fanno per me, che vorrebbero solo che mi divertissi e facessi cose normali, e non so come spiegare loro che non voglio nessuna festa.

Non voglio ricevere attenzioni.

La falsità di tutto questo mi uccide.

Quando mi arrabbio, mi sorridono. Mi lasciano fare tutto quello che voglio, "sempre". E questo mi fa venire voglia di urlare e spaccare tutto. Quando faccio i capricci non perdono mai la pazienza, e mi trattano con i guanti bianchi.

Come se "nessuna parte" di me potesse essere toccata.

Vorrei essere sgridata, punita. Vorrei dire loro di metterselo nel culo, il loro party, solo per vederli perdere la calma, una volta tanto, e dirmi che la festa è annullata. Invece, ogni volta che mi comporto male, loro si guardano con un'espressione indulgente, come se quello fosse un comportamento accettabile e perdonabile. Come se pensassero: "Per un'adolescente orribilmente sfigurata in fondo è normale vestire di nero ed essere di umore nero".

Quando cerco di dire loro quello che provo riguardo a questa festa di compleanno, credono che si tratti di una specie di reazione dovuta ai traumi che ho subito, e che in realtà non dico sul serio.

Invece "dico sul serio".

Il solo pensiero di questa festa mi fa sudare. E nessuno lo capisce, neppure Ali. Continua a dirmi che ci divertiremo, che io sto solo facendo la stronza, e poi mi chiede se ci saranno uomini interessanti.

So che M & P hanno speso una fortuna per affittare la discoteca, e li amo tanto per questo. Se pensassi anche solo per un secondo di potercela fare, non farei storie. Se potessi solo starmene lì a guardare gli altri che ballano e si divertono sarebbe perfetto.

Ma so che a un certo punto qualcuno vorrà dire qualcosa.

Continuo a pensarci, da quando mi hanno proposto l'idea della festa e io ho detto loro di farla il più lontano. possibile da me. Forse sarà papà, forse Ali o un'altra delle mie amiche.

La musica si interrompe e qualcuno afferra il microfono, facendo uscire una specie di ululato dalle casse. Poi comincia il discorso. Ci saranno parole sul coraggio, battute idiote che tutti faranno finta di trovare divertenti, e poi quei secondi di silenzio che seguono sempre la conclusione di un discorso. Quindi tutti cominceranno ad applaudire, voltandosi a fissare me.

A fissare "me".

E la metà pallida e liscia della mia faccia arrossirà fino a diventare del colore della cicatrice. Mi sentirò di nuovo bruciare.

Infine canteranno Happy Birthday, mamma e papà si abbracceranno, qualcuno piangerà e tutti guarderanno me, al centro della sala. E sui loro volti vedrò una benevolenza come se fossi una bambina di sei anni.

Come se fossi "speciale"...

 

Thorne chiuse il diario, lo appoggiò sul petto e restò a fissare il soffitto per qualche istante. Quindi tirò fuori la fotografia che aveva usato come segnalibro, e immaginò Jessica che scivolava via in una brutta sera di novembre.

La musica che svanisce alle sue spalle, lei che lascia il party, camminando in fretta verso il centro.

Nessuno si è ancora accorto della sua assenza. I suoi amici ballano mentre lei sale nel parcheggio, tra il fumo dei motori e gli echi sulle pareti di cemento.

Le prime voci preoccupate dei suoi amici, la ricerca, mentre, a mezzo chilometro da loro, Jessica esce al freddo, assapora l'aria gelata. Il nero che corre verso di lei. La notte che bacia entrambi i lati della sua faccia, mentre cade...

Thorne ebbe un soprassalto quando squillò il telefono, ed Elvis saltò giù dal letto. Prima di rispondere Thorne guardò l'orologio. Le quattro e trentacinque.

Brigstocke non perse tempo in preamboli. «Abbiamo ricevuto segnalazioni di un incidente a Finchley...»

Thorne era già sceso dal letto. «A casa di Ryan?» chiese.

«Esatto. Ci sono già degli agenti sul posto, ma sembra che ci sia molta confusione. Almeno un ferito, ma per il momento non sappiamo altro.»

«Credi che Zarif abbia mandato X-Man a colpire Ryan?»

«Ne so quanto te, Tom.»

Thorne si muoveva in fretta per la stanza, afferrando calzini, mutande e camicia. «Stai andando anche tu?»

«No, la chiamata l'ha presa Tughan, ma tu sei molto più vicino di lui alla zona, perciò se ti muovi dovresti arrivare per primo.»

«Grazie, Russell. Ti chiamo appena arrivo.»

In soggiorno, Hendricks era sveglio e stava seduto sul letto. Thorne gli disse cosa era successo.

«Vuoi che venga con te?»

Thorne era entrato in cucina. Uscì con un bicchiere d'acqua in mano e scosse la testa.

«Ne sei sicuro? Posso vestirmi in un attimo.»

Thorne prese la giacca, tastò le tasche per controllare che ci fossero le chiavi. «Non è necessario» disse. «Non sappiamo ancora cosa è accaduto. Ma ti consiglio di non tornare a dormire.»

Le strade erano deserte. Thorne si diresse verso la rotonda di Archway e poi verso nord. Si sentiva sveglio e concentrato, perciò non si preoccupò troppo di rispettare il limite di velocità. Vedeva i fanali di coda delle altre auto con molto anticipo, e notava per tempo quelle che sbucavano dalle strade laterali.

Scelse di passare attraverso Highgate, evitando la tangenziale che passava sotto il Ponte dei Suicidi. Il cavalcavia di ferro, che aveva sostituito il viadotto di John Nash (l'Archway originale), era diventato uno dei posti preferiti da cui si buttavano i depressi della città. Thorne lo evitava ogni volta che poteva, perché quando ci passava sotto si irrigidiva sempre, aspettando l'impatto di un corpo umano sul cofano.

Quella notte aveva fretta, ma con le pagine del diario di Jessica ancora fresche nella mente, nulla avrebbe potuto convincerlo a passare sotto quel ponte.

Il cellulare squillò di nuovo mentre Thorne passava con il rosso a un semaforo. Un'occhiata al display gli disse che si trattava di Holland. «Lo so» disse subito. «Sono già in strada verso la casa di Ryan.»

Holland rise. «Ci vediamo lì, allora.»

Se gli Zarif avevano colpito Ryan, non c'era modo di prevedere quello che poteva succedere. Probabilmente Stephen avrebbe preso le redini dell'organizzazione, e non sembrava il tipo capace di perdonare e dimenticare. Ma poteva anche darsi che il figlio di Billy Ryan possedesse solo un brutto carattere e nient'altro. Magari sarebbe crollato, facendo implodere la Ryan Properties e lasciando campo libero ai fratelli Zarif. Forse tutta quella faccenda era iniziata come una reazione al tentativo di Ryan di invadere il loro territorio, ma Memet e i suoi fratelli non si sarebbero presi tutto quel disturbo se non ne avessero voluto ricavare anche vantaggi sostanziali. In qualunque modo fossero andate le cose, ci sarebbero stati grandi cambiamenti. E altri morti...

Thorne arrivò a Finchley e girò intorno al parco dove due settimane prima aveva parlato con Billy Ryan. Non sapeva ancora cosa avrebbe trovato a casa dell'uomo, ma aveva la sensazione che per un po' di tempo sarebbe stato qualcun altro a portare a spasso il cane.

La casa era una villa a tre piani, in un angolo del giardino pubblico. C'erano due auto della polizia ma niente ambulanze.

Thorne mostrò il tesserino al piantone davanti alla porta ed entrò. Stava fissando la scia di sangue che macchiava la moquette, quando un altro agente in uniforme gli comparve davanti.

«Sono l'ispettore Thorne. Dov'è l'ambulanza?»

«È venuta ma è andata via vuota. La vittima era già morta quando sono arrivati.»

Thorne pensò a Hendricks. Chissà se era già vestito? «Dov'è?»

L'agente gli indicò una porta nel corridoio. Thorne si avviò, rimpiangendo di non aver preso i guanti dal portabagagli. «Conosciamo l'identità della vittima?»

«Sissignore. Secondo la signora Ryan, il morto è suo marito, William John Ryan.»

Thorne fece attenzione a non pestare le macchie di sangue. La porta era socchiusa, e la spinse con un piede.

Ryan era sul pavimento della cucina, raggomitolato in un angolo. Un avambraccio peloso era macchiato di rosso e poggiato in modo innaturale contro un armadietto. La camicia bianca era inzuppata di sangue, e dalla gola squarciata ne cadevano ancora alcune gocce, che andavano ad aggiungersi alla pozza sulle mattonelle di cotto.

Non c'era bisogno di una laurea in medicina per capire la causa della morte.

Thorne vide che l'agente era accanto a lui sulla porta. «Sappiamo com'è andata?»

«Una storia strana» rispose l'altro. «Lei è entrata e gli ha piantato il coltello in gola, a quanto sembra.»

Thorne si voltò di scatto. «Lei? È stata la moglie a ucciderlo?»

«Nossignore. Non la moglie.» Il poliziotto si voltò e indicò la porta da cui era uscito quando Thorne era entrato in casa. «L'altra donna...»

Thorne lo spinse da parte e tornò indietro lungo il corridoio senza una parola. Il respiro gli usciva a fatica dai polmoni, e un rumore gli si allargava in testa, un ronzio come di vespe intrappolate in un barattolo di vetro. Sapeva già cosa avrebbe trovato.

I due agenti seduti sul divano, un uomo e una donna, si alzarono appena lo videro entrare. La donna ammanettata a uno dei due dovette alzarsi anche lei.

Thorne aprì la bocca, poi la chiuse senza dire nulla. Alison Kelly lo fissò per un paio di secondi, e Thorne fu certo che gli avesse rivolto un piccolo cenno d'intesa, prima di abbassare di nuovo la testa.

 

Aprile

PELLE IMMORTALE

 

CAPITOLO 22

 

Un paio d'anni prima, mentre andava al lavoro, Thorne era rimasto scosso dalla vista di un carro funebre tirato da due cavalli che era uscito all'improvviso dalla foschia mattutina. Aveva accostato l'auto al marciapiede ed era rimasto immobile a fissare i cavalli neri, il cui respiro si condensava come nuvole di fumo davanti alle bocche morbide.

Ora, osservando i becchini che facevano scivolare la bara fuori da un carro identico a quello, provò lo stesso brivido che aveva provato allora. Se c'era un fantasma che non desiderava mai vedere, era quello di Billy Ryan.

Il cimitero di St Pancras era il più grande di Londra. Meno noto di quelli di Highgate o Kensal Green, e con meno tombe di personaggi famosi, aveva comunque la sua atmosfera.

Alcuni amici di Ryan presero la bara sulle spalle, e si allontanarono lentamente dal viale principale. Il terreno occupava quello che una volta era stato il Finchley Common, tristemente famoso come rifugio dei banditi Dick Turpin e Jack Sheppard. A Thorne sembrava il luogo appropriato per sotterrare Billy Ryan.

«Mi scusi, signore...»

Thorne si fece da parte per lasciar passare uno degli impiegati delle pompe funebri, seguito da altri tre, tutti impegnati a trasportare omaggi floreali: croci, corone e cuscini di fiori inviati da parenti e amici.

Entrando nel cimitero, Thorne aveva dato un'occhiata alla bacheca all'ingresso. C'erano sei funerali previsti per quella mattina, ciascuno a un'ora diversa.

Quello di Ryan era l'evento principale.

I tempi erano cambiati per la famiglia Ryan e per quelli come loro. Il vizio e il gioco rendevano ancora, ma i soldi veri si facevano con la droga. Il codice d'onore dei criminali, se c'era mai stato, era finito nel cesso. Tuttavia, nonostante i cambiamenti alcune cose restavano uguali.

I delinquenti amavano sempre la mamma, e potendo scegliere preferivano i funerali vecchio stile.

Il corteo si stava dirigendo attraverso l'erba umida verso il centro del cimitero, dove alberi, cespugli e rampicanti avevano rimpiazzato le aiuole ben tenute. La folla si era assottigliata.

C'erano soltanto familiari, amici intimi e alcuni poliziotti.

Thorne aveva passato quasi tutta la mattina prima in chiesa, poi seguendo la lenta processione in una Rover nera senza insegne. Aveva visto passanti ignari togliersi il cappello al loro passaggio, e lo aveva trovato quasi divertente. Il rispetto della gente era molto importante per certi tipi di uomini d'affari...

I portatori della bara continuavano a camminare attraverso un sottobosco disordinato, cercando di mantenere tutta la dignità possibile, mentre scavalcavano radici sporgenti e giravano intorno a lapidi inclinate. Uno di loro precedeva il gruppo per scostare i rami bassi che intralciavano il cammino.

Thorne non era l'unico poliziotto presente. Qualche passo davanti a lui c'era Tughan, e sparsi in giro c'erano un buon numero di ragazzi dell'SO7. A parte loro, Thorne si chiedeva quanti tra i presenti portassero una pistola sotto la giacca, quanti anni di galera avesse scontato ciascuno degli uomini che portavano la bara, e se l'assassino di Muslum e Hanya Izzigil non fosse per caso l'uomo che camminava al suo fianco.

Gli venne da pensare che a parte il pastore e gli uomini delle pompe funebri, tutti gli altri erano poliziotti o delinquenti. E guardando meglio, anche il pastore aveva una faccia sospetta...

Svoltarono un angolo e il sentiero divenne più ampio. C'era una fossa scavata di fresco, con un telo verde brillante intorno. Lì vicino erano già in attesa molti altri mazzi di fiori. C'erano alcune tombe recenti, con il marmo nero o bianco troppo brillante rispetto alle lapidi consunte che le circondavano. Gli epitaffi incisi in oro sembravano volgari accanto a nomi di un'altra epoca: Maud, Florence, Septimus...

Il pastore prese posizione e iniziò il servizio funebre: «Mio Dio...».

Quelle parole riassumevano perfettamente l'umore di Thorne.

Da un lato della fossa Stephen Ryan sosteneva la madre. Aveva gli occhi arrossati dal pianto, o magari dalla cocaina, difficile dirlo. Fissò Thorne con uno sguardo intenso, dal significato indecifrabile.

Grazie per essere venuto...

Cosa farò adesso...

Che cazzo ci fai tu qui...

Preparati...

Sua madre invece non staccava gli occhi dalla bara. Thorne non aveva avuto il piacere di conoscerla, mentre, stando a quanto gli aveva detto Tughan, quel piacere lo avevano avuto un buon numero di giardinieri e istruttori di ginnastica. Le tette siliconate e le iniezioni di botox riuscivano a darle un aspetto ancora appetibile. Ora avrebbe avuto molti più soldi da dedicare alla sua lotta contro la vecchiaia. Quando sollevò lo sguardo, Thorne vide che sotto il trucco pesante aveva gli occhi asciutti.

Il pastore continuava il suo discorso monotono, e ogni tanto qualche parola si perdeva per il gracchiare di un corvo o per il rombo di un aereo.

Thorne si domandò se Billy Ryan avesse praticato un po' di boxe anche con la seconda moglie, oltre che con la prima. La probabilità era piuttosto alta. In ogni modo, ora aveva finalmente pagato per quello che aveva fatto ad Alison Kelly.

Ma aveva pagato anche per Jessica Clarke?

Thorne fissò la vedova e l'erede, mentre la bara veniva calata nella fossa. La donna aveva l'aria di voler solo essere rassicurata che il marito non sarebbe mai uscito di lì. Stephen cominciò a singhiozzare, e Thorne si rese conto che era la madre a sostenere lui, e non il contrario.

Quando una fila di assassini e rapinatori cominciò ad avvicinarsi alla fossa per gettare un pugno di terra sulla bara, Thorne decise che era arrivato il momento di andarsene. Si voltò e si diresse lentamente verso il viale principale. Camminando leggeva le iscrizioni sulle tombe. Molti di coloro che giacevano sotto i suoi piedi si erano "addormentati", espressione che gli sembrò alquanto infantile. Ma gli eufemismi facevano parte della natura umana.

"Riposa in pace", per esempio, suonava meglio di "investito da un camion", o "caduto nel pozzo dell'ascensore". E certamente era molto meglio di "accoltellato varie volte nel corridoio di casa sua, e poi ammazzato in cucina".

Thorne emerse sull'ampio viale che portava verso i cancelli del cimitero. Si fermò ad accarezzare il muso di uno dei cavalli del cocchio funebre. Un brivido corse lungo il fianco dell'animale, seguito da un nitrito. Dopodiché una serie di stronzi di notevole dimensione andarono a spiaccicarsi sull'asfalto.

Un brutto ricordo era stato esorcizzato nel modo migliore...

Dirigendosi verso la sua auto, Thorne superò una serie di personaggi vestiti di nero, che si sentivano sicuramente onorati di occuparsi della sicurezza al funerale di Billy Ryan. Ma accanto a un grosso bidone dei rifiuti vide qualcuno che non si aspettava di vedere.

«Che senso ha la sua presenza qui?» gli chiese.

Ian Clarice aveva tra le mani una corona di gigli bianchi. Indossava jeans e giubbotto blu. Sembrò trovare divertente la domanda di Thorne. «Nessun senso» rispose. «A suo tempo andai anche al funerale di Kevin Kelly. Era il meno che potevo fare.»

Thorne si domandò se Clarke conoscesse la parte avuta da Ryan in ciò che era accaduto a sua figlia. In ogni modo, non sarebbe certo stato lui a rivelargliela. Se non avesse aperto bocca quando non doveva, ora nessuno di loro due si sarebbe trovato in quel cimitero.

Guardò verso il cancello. Un giardiniere si muoveva lentamente lungo il bordo di un'aiuola, con un paio di cesoie da siepi in una mano e un cellulare premuto all'orecchio nell'altra.

Quando Ian Clarke iniziò a parlare, lo fece a voce tanto bassa, e con una tale assenza di emozione, che Thorne ci mise qualche secondo a capire che non stava parlando tra sé.

«I primi giorni dopo le ustioni sono i peggiori. Non solo da un punto di vista... emozionale. I tessuti continuano a morire, e dopo qualche giorno il danno può essere dieci volte peggio che all'inizio. È quello che causa la maggior parte delle cicatrici.

Lei all'inizio non poteva aprire gli occhi, né la bocca. Le urla le uscivano dai denti serrati. E in quei primi giorni urlava molto. Doveva indossare una maschera trasparente, per mantenere la pressione sulla pelle ustionata. Serve a ridurre lo spessore delle cicatrici e a mantenerle flessibili. Dovette portarla per più di un anno, e la odiava. Alla fine fu inutile, perché non era stata sistemata in modo corretto all'inizio, e ormai il danno era fatto. Jess doveva restare immobile, assolutamente immobile, mentre le spalmavano il viso di vaselina, e poi applicavano quella maschera gelatinosa. Non poteva muovere neppure un muscolo...

Avrei potuto lasciare che le facessero un'anestesia. Avrei dovuto farlo. Ma non volevo che le facessero un'altra operazione. Mi capisce? Aveva già avuto sei innesti cutanei e venticinque trasfusioni. Alcuni dei dottori più giovani dicevano scherzando che Jess aveva passato più tempo di loro in quell'ospedale.

La maschera a pressione ora si realizza con il laser. Si prende un'impronta computerizzata del viso, e il prodotto finale è perfetto fin nei minimi particolari. Il trattamento delle ustioni ora è molto migliore di quanto fosse vent'anni fa. Adesso per ridurre le cicatrici durante i primi giorni usano la terapia iperbarica. E si fanno continuamente nuove scoperte: microdermoabrasione, rimodellamento della pelle con il laser, esfoliazione chimica... Su Internet ci sono siti specializzati e forum di discussione dove puoi scoprire tutto quello che ti serve, se ne hai il tempo e la voglia. Io sono diventato una specie di esperto su tutti i nuovi sviluppi.

Questi sono tempi eccellenti per gli ustionati... Gli innesti cutanei sono incredibili, adesso. Tempo fa, era possibile solo prendere campioni di pelle da zone diverse. In tal modo la pelle si contraeva, il tessuto cicatriziale si ispessiva. Adesso esiste una pelle artificiale da usare per il trapianto temporaneo. Roba fatta di pelle di squalo e silicone. A quell'epoca... Ma senti come parlo, dico "a quell'epoca" come se fosse cent'anni fa. Comunque a quell'epoca usavano la pelle di cadaveri umani. Non le fa impressione?

Pelle di cadavere sul collo e sul viso di mia figlia...

Adesso la pelle possono realizzarla in laboratorio, ed è incredibilmente simile a quella con cui nasciamo. Ha lo stesso spessore della pelle umana, e la chiamano "pelle immortale", perché le cellule non smettono mai di crescere. Mai. Nel nostro corpo c'è solo un tipo di cellula che si produce naturalmente ed è considerata immortale. Indovini quale? La cellula del cancro...»

Finalmente smise di parlare.

Thorne fece un passo verso di lui. «Ian...»

«I cattivi spesso hanno delle cicatrici. I mostri e gli assassini dei film, il fantasma dell'opera, il Joker e Freddie Kruger...»

«Forse anche in quel campo abbiamo fatto dei passi avanti» disse Thorne.

Se Ian Clarke l'aveva udito, non lo diede a vedere. «È come indossare una maschera che non puoi mai toglierti» disse. «Jessica l'ha scritto nel suo diario.»

«L'ho letto.»

Clarke alzò gli occhi di scatto. «Ha letto cosa ha scritto del party?» disse con voce rotta. «Del discorso di compleanno che qualcuno avrebbe fatto? Ecco, era esattamente quello che avevo in mente di fare io, comprese le battute idiote.»

Thorne stavolta non riuscì a sostenere il suo sguardo, e abbassò lentamente gli occhi a fissare il suolo, dove erano caduti alcuni petali della corona che Ian Clarke stringeva spasmodicamente tra le mani.

 

CAPITOLO 23

 

«Sei un idiota, Tom.»

«Oh, grazie tante.»

«Sei un fottuto idiota.»

«Cristo, Carol...»

Lo shock di averle sentito usare una parolaccia, cosa che Chamberlain non faceva quasi mai, in qualche modo ammorbidì il colpo di sapere che quella parola era diretta a lui.

Tuttavia il commento fece cadere un silenzio pesante tra loro. Dopo mezzo minuto passato a fissare il tavolo e a strappare gli orli del tovagliolino di carta, Thorne sollevò il bicchiere vuoto. Quasi senza guardarlo Chamberlain annuì e spinse verso di lui il proprio calice da vino, anch'esso vuoto.

Thorne andò al banco e ordinò una pinta di Guinness e un bicchiere di rosso.

Il pub si chiamava The Angel, in St Giles High Street. Era un locale piacevolmente vecchio stile, costruito dove una volta c'era una taverna che si trovava sulla strada tra la prigione di Newgate e la forca di Tyburn. Il viaggio del condannato a morte, che passava lungo l'attuale Oxford Street, includeva tradizionalmente una tappa in quella taverna per un ultimo bicchiere. La bevuta era gratis, e la battuta di rito era che il cliente avrebbe pagato "al ritorno".

Thorne pagò con una banconota da dieci, e intascò pochi spiccioli di resto.

Il concetto delle bevute gratis apparteneva ormai al passato, come il vaiolo o il reclutamento forzato.

Adesso un uomo che fosse entrato in quel pub strisciando, con solo due minuti di vita davanti a sé, avrebbe potuto considerarsi fortunato se gli avessero lasciato prendere qualche arachide dalla ciotola sul bancone.

Thorne percorse di nuovo i pochi metri fino al loro tavolo, e posò le bevande prima di sedersi. «L'ultimo bicchiere del condannato a morte» disse.

Chamberlain sorrise, riuscendo a esprimere indulgenza e disapprovazione allo stesso tempo. «Sappiamo entrambi chi penzolerà dalla forca, dico bene?»

«Lo sappiamo?» chiese Thorne, con aria di finta innocenza. «Io non ne ho idea.»

Anche se riconosceva il suo errore, non era ancora disposto ad ammetterlo apertamente. Quello che invece non capiva bene era perché avesse deciso di confidarsi con Chamberlain. Era una cosa che aveva già in mente di fare, ancora prima che Alison Kelly uccidesse Billy Ryan, perciò non poteva neppure dare la colpa alla birra.

«Capisco la parte sessuale...» disse lei.

«Ah, meno male.»

«Dopotutto, sei un uomo.»

«Cioè un bruto senza cervello che agisce in base a quello che gli dice il cazzo.»

Chamberlain arrossì. «L'hai detto tu.»

Vederla arrossire fece sorridere Thorne. «Non glielo ho detto perché abbiamo dormito insieme» disse.

«No? Allora resta solo un'altra risposta: gliel'hai detto perché sei un idiota.»

«Non ricominciamo, per favore...»

Chamberlain scosse la testa, esasperata, e bevve un sorso di vino.

Thorne si domandò se quando era ancora nella polizia arrossiva, con tutte le oscenità che di certo le era toccato sentire. Ma forse allora si trattava di una reazione soppressa, come la pietà per un allibratore clandestino o il conato di vomito per una puttana.

«Sei incazzata perché ti sei sentita lasciata da parte» disse Thorne.

«Sono incazzata per un sacco di cose.»

Non suonava come un invito a ficcare il naso, e Thorne non fece domande.

«Comunque hai ragione» continuò lei. «In parte si tratta di questo. Sapevo che non avrei mai potuto avere un ruolo nel caso che stavate costruendo contro Ryan. Anche se tu facevi finta che io fossi d'aiuto...»

«Carol, io non ho mai...»

Lei lo zittì con un lieve movimento della mano. «In ogni modo, pur sapendo che non c'entravo nulla, immaginavo delle cose.»

«Quali, per esempio?»

«Immaginavo di essere io a uccidere Ryan. Ci ho pensato molto.»

Thorne sollevò un sopracciglio. «E com'era?»

«Bello.»

«Il modo in cui lo uccidevi, o il modo in cui ti sentivi dopo averlo fatto?»

«Tutti e due.»

«E poi hai scoperto che la realtà non è piacevole come avevi pensato.»

Lei tirò fuori un fazzoletto di carta dalla manica, e asciugò una macchia di vino sul tavolo. «Ryan non doveva morire. Non è il risultato giusto.»

Thorne aveva pensato a lungo la stessa cosa, esaminando il fatto sotto ogni luce possibile. «Non credi che così abbia pagato per quello che ha fatto?»